Dopo l’attentato cruento al Museo del Bardo, a Tunisi, di consolante c’è il fatto che anche questa volta la parte più consapevole della popolazione tunisina sia scesa in piazza immediatamente e spontaneamente. E’ questa la grande ricchezza della Tunisia post–rivoluzione: la reattività democratica, il senso di partecipazione civile, l’attivismo sociale e politico. Altrettanto lodevole è che il comitato organizzatore del Forum sociale mondiale abbia confermato ufficialmente che esso si svolgerà a Tunisi come stabilito: dal 24 al 28 marzo e secondo tutte le attività previste.
Vale la pena ricordare in premessa quanto variegata e complessa sia la società tunisina odierna, ove convivono consuetudini, costumi, comportamenti sia all’insegna della modernità estrema sia del conformismo religioso e del ripiegamento identitario. E vi si ritrovano culture politiche che si richiamano al marxismo accanto ad altre che s’ispirano ai diversi orientamenti islamisti, con tutte le posizioni intermedie, in primis quelle che recuperano il riformismo nazionalista.
Ciò detto, nessuno si nasconde che il sanguinoso attacco terroristico, che aveva come bersaglio il Parlamento ove in quel momento si discuteva intorno a una legge antiterrorismo, rappresenti un allarmante salto di qualità nell’escalation della violenza di stampo integralista; e che esso sia parte di un piano mirante a colpire a morte l’unico paese in cui la cosiddetta primavera araba non è divenuta cupo inverno.
Questo attacco non è un fulmine a ciel sereno. Il salafismo non è una novità assoluta per la Tunisia, come vuole una certa vulgata giornalistica. Durante il regime benalista – ricorda, tra gli altri, Vincent Geisser – i gruppi salafiti divennero rifugio per alcune fasce di giovani, soprattutto sottoproletari, frustrati dalla privazione di lavoro, futuro, dignità. Lo stesso cielo della transizione tunisina si era oscurato già poco dopo la fuga di Ben Ali[1]. Infatti, l’effervescenza partecipativa, la presa di parola pubblica, il fervore d’iniziative politiche e culturali avevano visto come contraltare le provocazioni della galassia d’ispirazione salafita–takfirista: dagli atti di vandalismo contro i più vari ambiti, luoghi, protagonisti della vita culturale all’attacco contro l’ambasciata degli Stati Uniti, il 14 settembre 2012; dagli assalti a sedi di partiti politici e dell’Ugtt, la principale centrale sindacale, alle minacce e aggressioni ai danni di docenti universitari, politici, intellettuali, sindacalisti, giornalisti, femministe, artisti, blogger. A compiere un buon numero di questi atti, Ansar al–Sharia, al cui braccio armato, Katibat Okba Ibn Nafaa, sembra appartenessero i due giovani terroristi del Bardo uccisi, di nazionalità tunisina e di origine popolare.
Su questo versante, il 2013, in particolare, è stato annus horribilis: contrassegnato dalla sequela di attacchi terroristici di stampo alqaedista sul Monte Chaambi, vicino alla frontiera algerina; dalla scoperta quasi quotidiana di depositi d’armi e campi d’addestramento jihadista in varie regioni del paese; da due omicidi politici nella forma inedita dell’esecuzione premeditata e attuata da sicari. Il 6 febbraio 2013 è assassinato l’avvocato Chokri Belaïd, figura carismatica dell’opposizione di sinistra, segretario generale del partito El Watad e coordinatore del Fronte popolare; il 25 luglio, con modalità identiche è ucciso Mohamed Brahmi, deputato dell’Assemblea costituente, leader di una formazione facente parte anch’essa del Fronte popolare. Ben undici giorni prima, i servizi d’intelligence statunitensi avevano informato il ministero dell’Interno tunisino che gruppi salafiti avevano pianificato l’esecuzione di Brahmi.
In realtà, non è irrilevante il contributo che la stessa Ennahda, il partito islamista detto moderato (oggi parte della coalizione che regge il governo di Habib Essid), ha offerto, deliberatamente o meno, all’incremento delle acque ove nuota il drago jihadista. Spesso i suoi leader ‘moderati’ opportunisticamente hanno accarezzato il pelo della corrente interna filo–salafita. Per esempio, non poche volte hanno omaggiato o perfino accolto in pompa magna predicatori rigoristi provenienti dal Marocco, dall’Algeria, dall’Egitto, dalla Penisola arabica. Per non dire della comprensione verso i salafiti manifestata a suo tempo da alcuni, a cominciare da Rachid Ghannouchi: per esempio, dopo l’attacco del 2012 a un’esposizione d’arte nel Palazzo El Ebdellia, decretata blasfema da loro stessi e perfino dal laico ministro della Cultura di allora.
Certo, sarebbe un grave errore raggruppare tutti i fenomeni d’islamismo radicale sotto l’etichetta di ‘minaccia terroristica’: la violenza salafita del 2011–2012 non è la stessa cosa delle reti jihadiste, a loro volta variegate[2]. Vero è che il terrorismo jihadista si è più che mai globalizzato; la Libia confinante è base di molti gruppi che ne fanno parte ed è qui, probabilmente, che si sono addestrati i terroristi del Bardo.
Ma v’è anche un fattore interno che contribuisce a irrobustire il drago jihadista (per usare ancora questa metafora). I problemi sociali – disoccupazione, precarietà, emarginazione, disparità regionali – che avevano favorito l’insurrezione popolare contro il regime benalista si sono ancor più acuiti, riproducendo la spirale di rivolte spontanee e dura repressione, tipica della storia della Tunisia indipendente. In più il semi o sottoproletariato giovanile delle regioni e dei quartieri più diseredati, che era stato l’autentico primo attore dell’insurrezione, oggi è ancor più emarginato, negletto, di nuovo espropriato della dignità che aveva rivendicato e della stessa rivoluzione di cui era stato protagonista. Non per caso la figura di Mohamed Bouazizi è stata abbandonata in qualche cassetto della storia.
E’ tra questa gioventù diseredata, di nuovo privata della dignità e del futuro, che pescano la galassia salafita come quella jihadista. Lo confermava, tra gli altri, il Rapporto del 2013 dell’International Crisis Group: dal punto di vista sociologico, i giovani che si fanno salafiti o addirittura jihadisti appartengono alla stessa “gioventù rivoluzionaria che ha combattuto le forze dell’ordine durante la sollevazione di dicembre 2010-gennaio 2011” [3]. Prima d’essere messa fuori legge, Ansar al–Sharia, per esempio, aveva offerto loro la possibilità di un sia pur perverso riscatto, rendendoli protagonisti di azioni di ‘vigilanza sui costumi’: minacce e attacchi contro venditori d’alcol; chiusura violenta di esercizi commerciali durante il Ramadan; profanazione e distruzione di tombe e mausolei di tradizione sufi; imposizione del loro comando in certe moschee e quartieri diseredati. Come nelle migliaia di casi di giovani che vanno a combattere in Iraq e in Siria, si tratta di atti dal valore anche compensatorio, che permettono loro di sfogare l’aggressività, sublimare la frustrazione sociale, sfuggire alla disperazione: quella che tuttora spinge alcuni giovani senza lavoro e senza voce a darsi fuoco in pubblico per protesta[4].
Tutto questo sembra destinato ad aggravarsi per ragioni molteplic
i: gli effetti della crisi economica mondiale, il crollo del turismo, la fuga d’investitori e imprenditori stranieri, provocata dal clima di violenza. Fattori che, a loro volta, s’inseriscono nella cornice di governi, in particolare l’attuale, che, docilmente sottomessi come sono agli ordini del Fondo monetario internazionale e di altri poteri forti, sembrano poco inclini a cercare di risolvere la grande questione sociale cui abbiamo accennato.
Inoltre, poiché la legge ad hoc ancora in vigore è quella liberticida del 2003, del tutto fondato è il rischio che la lotta contro il terrorismo sia occasione e pretesto non solo per sottoporre a maltrattamenti e torture i sospettati e i fermati, come spesso avviene, ma anche, più in generale, per incrementare la repressione verso gli indocili e ridurre diritti fondamentali e libertà civili. Il che sarebbe, paradossalmente, un modo per dar ragione ai terroristi, un segnale d’incoraggiamento a proseguire nella loro strategia criminale.
Insomma, la questione dell’islamismo radicale e violento ha anche radici economico–sociali. Perciò è alquanto illusorio pensare che si possa sconfiggerlo esclusivamente manu militari; e con l’indurimento della repressione e la riduzione di diritti e libertà. Lungimirante sarebbe, da parte delle forze di sinistra, non solo difendere gli spazi democratici, ma anche tentare di unificare, dar voce, rappresentare l’estesa e spontanea conflittualità sociale. Finora sembra un’impresa impossibile. Ma la Tunisia è un piccolo, grande paese capace di sorprendere. Non è assurdo sperare che un nuovo movimento popolare, unitario e meglio organizzato, si riappropri delle rivendicazioni della Rivoluzione: dignità, lavoro e libertà.
Versione ampliata e aggiornata dell’articolo comparso sul manifesto del 20 marzo 2015.
NOTE
[1] Una cronologia precisa e minuziosa degli atti qualificabili come terroristici, “fin dai primi mesi senza Ben Ali”, sta nel sito tunisino Inkyfada: https://inkyfada.com/maps/carte-du-terrorisme-en-tunisie-depuis-la-revolution/
[2] Si veda l’ottima analisi contenuta in: Genèse et réforme de la loi antiterroriste en Tunisie, nel già citato sito Inkyfada: https://inkyfada.com/2014/06/reforme-loi-anti-terroriste-tunisie/
[3] International Crisis Group, 2013, Tunisie : violences et défi salafiste. Rapport Moyen-Orient/Afrique du Nord, n°137, 13 février: http://www.crisisgroup.org/~/media/Files/Middle%20East%20North%20Africa/North%20Africa/Tunisia/137-tunisie-violences-et-defi-salafiste.pdf
[4] Sulle auto-immolazioni di protesta, in particolare in Tunisia, si veda: Rivera A., 2012, Il fuoco della rivolta. Torce umane dal Maghreb all’Europa, Dedalo, Bari.
(20 marzo 2015)
fonte: https://archivio.micromega.net/tunisia-le-basi-sociali-del-terrorismo-jihadista/