Cronache di ordinario razzismo. Terzo libro bianco sul razzismo in Italia, curato da Lunaria, con contributi di P. Andrisani, S. Bontempelli, G. Caldiron, S. Chiodo, D. Consoli, G. Faso, G. Naletto, S. Nunzi, E. Pugliese, A. Rivera, M. Russo Spena e D. Zola, è stato appena pubblicato sia in formato cartaceo che online.
Frutto di un lavoro collettivo avviato nel 2007, analizza discriminazioni e violenze razziste quotidiane sulla base di 2.566 casi, relativi al periodo tra l’1 settembre 2011 e il 31 luglio 2014, raccolti in un database on–line.
Dell’articolo a firma di Annamaria Rivera, riportiamo il primo paragrafo.
Il riferimento al lungo ciclo attuale di crisi economica e finanziaria, al fine di spiegare l’incremento del razzismo in molti paesi europei, è divenuto quasi un luogo comune. Tutt’altro che infondato, certo, poiché è evidente che in gran parte dell’Europa, colpita da una crisi ormai strutturale, sia in crescita quella che, con un eufemismo, possiamo chiamare area dell’intolleranza. Altrettanto lampante è che quest’ultima favorisca la comparsa o l’avanzata di formazioni politiche a vocazione xenofobica, razzista, identitaria, nazionalista e/o definibili approssimativamente come populiste, le quali a loro volta legittimano e incrementano le più varie forme d’intolleranza.
Nondimeno altri fattori, non solo economico–sociali, concorrono a questo effetto. Per esempio, il fatto che l’Unione europea coltivi una sorta di nazionalismo armato, a difesa delle proprie frontiere, non solo è causa d’una strage di profughi e migranti di proporzioni mostruose, ma ha anche contribuito indirettamente a incoraggiare i nazionalismi “nazionalitari” o etnici, quindi al successo delle destre. Non per caso in tutto il continente a occupare il primo posto nella scala del rifiuto e del disprezzo sono rom, sinti e camminanti, le popolazioni che più di altre incarnano, almeno simbolicamente, il rifiuto di confini e frontiere.
Insomma, il razzismo diviene “ideologia diffusa, senso comune, forma della politica” (Burgio, 2010). Ma non si tratta del ritorno in superficie dell’arcaico, come si crede, bensì di una delle fasi del ricorrente riemergere del lato oscuro della modernità europea.
Altrettanto palesi sono gli effetti sociali drammatici delle politiche di austerità e la frattura, sempre più profonda, che separa le classi super–agiate dalla moltitudine che comprende gli indigenti, i disoccupati, i salariati, i precarizzati, i socialmente declassati e coloro che a giusta ragione temono il proprio declassamento. In Italia, come prima in Grecia, il clima sociale va assumendo ormai colorazioni che ricordano scenari da Grande Depressione degli anni Trenta. Come allora, la depressione economica sembra tradursi in una sorta di depressione morale, in una disperazione sociale di massa. Et pour cause: secondo il Rapporto Istat reso pubblico i primi giorni di luglio 2014, nel nostro paese, ove il dieci per cento dei ricchi detiene quasi la metà della ricchezza, i senzalavoro erano, fino allora, almeno sette milioni, cioè ben più di un terzo della popolazione attiva.
In non pochi paesi europei la crisi economica si coniuga con una crisi, altrettanto grave, della democrazia e della rappresentanza, talché la distanza fra i cittadini e il potere si fa siderale e la cittadinanza va trasformandosi sempre più in sudditanza (v. Balibar, 2012). Non sorprende affatto, quindi, che gli effetti sociali della crisi e delle politiche di austerità, coniugati con la condizione e il senso soggettivo di sudditanza, alimentino frustrazione, spaesamento, risentimento sociale, e conseguente ricerca del capro espiatorio. Una buona parte di cittadini italiani fra i più penalizzati dalla crisi finisce così per identificare il proprio nemico negli immigrati “che rubano il lavoro” o nei rom che degraderebbero il loro già degradato quartiere di periferia. Sicché, rubando la formula a Enzensberger (2007), si potrebbe dire che il razzismo detto popolare sia perlopiù rancore socializzato.
Inoltre, la crisi europea, che è anche crisi politico-ideologica, come ha ribadito Slavoj Žižek (2011), produce, particolarmente in questo periodo, élite politiche di basso profilo, anche morale e culturale, le quali, in modo consapevole o non, sovente fanno ricorso a registri discorsivi che mimano la chiacchiera popolare razzista o para–razzista. Ciò riguarda un buon numero di paesi dell’Unione europea. In riferimento al nostro, si può dire che oggi appare ancor più evidente fino a qual punto la parola razzista si sia liberata, travalicando l’ambito del leghismo e dell’estrema destra, fino a coinvolgere anche intellettuali e massimi esponenti delle istituzioni un tempo democratiche.
Cito, fra i tanti, un paio di esempi che mostrano come il degrado politico e culturale si manifesti non solo attraverso misure contro gli altri improntate ai paradigmi discriminatorio, repressivo e punitivo, ma anche per mezzo di un linguaggio pubblico esso stesso degradato.
Può succedere, come è accaduto a giugno del 2012, che sulla bocca del futuro capo di governo, Matteo Renzi, fiorisca un “Siamo forse degli zulù?”, pronunciato nel corso di un’intervista televisiva [1]. Non sappiamo se il modo di dire popolaresco, che per rozzezza démodé somiglia ai tanti cui ci aveva abituati Berlusconi, fosse una gaffe involontaria, emersa da un sostrato preconscio un po’ razzista, oppure se anticipasse il nuovo stile narrativo-comunicativo, che poi sarebbe sbocciato rigoglioso una volta nominato premier: cioè quella “miscela pop” [2] che, come tutto il pop, non disdegna il revival.
Il secondo esempio è la recente sortita del ministro dell’Interno, Angiolino Alfano. L’11 agosto 2014, annunciando una direttiva “per rafforzare i controlli sulle spiagge contro l’abusivismo commerciale”, onde tutelare “la serenità e la quiete degli italiani in vacanza” nonché “il nostro Made in Italy”, il ministro ricorre ripetute volte al lemma spregiativo di vu’ cumprà[3].
Ma perfino coloro che, dalle colonne del quotidiano La Repubblica [4], stigmatizzano una tal caduta di stile ricadono, paradossalmente, in un lessico di tipo connotativo e discriminatorio. Così, secondo le parole riportate dal quotidiano, la governatrice della regione Friuli–Venezia Giulia, Debora Serracchiani, del Pd, biasima Alfano: “Ci sono tanti modi per riferirsi agli extracomunitari…”[5].
Dicevo della crisi economica come fattore invocato spesso per spiegare l’avanzata della xenofobia e del razzismo. In realtà, se è scontato che ovunque essa concorra a incrementare il meccanismo del capro espiatorio e a renderne più vulnerabili le vittime, l’Italia si caratterizza, rispetto ad alcuni altri paesi europei, per una lunga continuità strutturale dell
e pratiche discriminatorie e razziste: discorsive, sociali, politiche, istituzionali. Nel nostro paese, quello che da lungo tempo e più volte ho definito circolo vizioso del razzismo (fra razzismo di Stato, razzismo mediatico e xenofobia “popolare”) si riproduce costantemente da almeno venticinque anni, secondo i medesimi schemi e dispositivi, con poche varianti e aggiornamenti.
Oggi, ciò che colpisce di più è il fatto che, di fronte a un impoverimento di massa che pesa in particolar modo su collettività e persone già sfavorite e/o marginalizzate, fra le quali, migranti, rifugiati, rom (v. Sacchetto e Vianello, 2013), prevalga, da parte delle istituzioni di ogni genere e livello, un accanimento repressivo, che sfiora la crudeltà, verso attività informali di nessun rilievo penale e volte alla pura e semplice sopravvivenza: quelle che una visione lungimirante potrebbe considerare come forme auto–organizzate di resistenza alla crisi, utili, fra l’altro, a ridurre tensioni e conflitti sociali.
Un esempio, fra i tanti, di tale accanimento è la direttiva del ministro dell’Interno cui ho fatto cenno, annunciata con enfasi in pieno agosto 2014. Essa sembra essere un effetto, fra le altre cose, della proiezione della propria insofferenza verso gli ambulanti informali di origine immigrata (come verso i migranti in genere) sugli “italiani in vacanza”. I quali, di solito e con alcune eccezioni, sono ben contenti di poter acquistare sulla spiaggia ciò che non hanno o che hanno dimenticato a casa. Se non fosse drammatica per le persone che hanno questo lavoro come unica opportunità per sbarcare il lunario, non sarebbe che grottesca la sproporzione fra l’entità della trasgressione e le misure annunciate: riunioni immediate di un centinaio di Comitati provinciali per l’ordine pubblico e la sicurezza e, da settembre, una volta al mese, convocazione del Comitato nazionale, come se si trattasse di fronteggiare chissà quale emergenza mafiosa, terroristica o eversiva.
Non è l’unica iniziativa di tal genere. In una fase in cui lo Stato sociale si riduce nettamente o tende a scomparire, e l’area dell’indigenza, della marginalità, del disagio si allarga a dismisura, perfino a settori di classi medie, talune istituzioni, centrali e locali, non sanno far altro che opporre alla povertà il discorso sicuritario e le misure di ordine pubblico. Come ho scritto altrove (Rivera, 2014a), sembra quasi che sia di ritorno la vecchia retorica delle “classi pericolose”, a rinnovare la tradizione borghese del razzismo di Stato e della paura dei poveri e dei marginali, nonché il sistema simbolico che tematizza il pauperismo in termini di pericolosità sociale. Ne fanno le spese senzatetto, migranti, occupanti di case, abitanti di quartieri popolari, soprattutto “accattoni molesti o petulanti”: formula tornata in auge nel linguaggio istituzionale e spesso usata come sinonimo di “zingari”.
Soprattutto nei confronti di questi ultimi c’è uno spiegamento d’iniziative repressive tale da poter dire che la strategia del capro espiatorio è ormai divenuta pensiero e prassi istituzionali; usata, fra l’altro, per occultare l’incapacità di presa sulle grandi decisioni riguardanti la finanza e l’economia, per simulare autorevolezza agli occhi dei cittadini e conquistarne il consenso elettorale.
Intorno a tutto questo, da un buon numero d’anni si è determinato in Italia un certo consenso fra destra e “sinistra” (v. Faso, 2009). Si pensi al Patto di sicurezza metropolitana contro il “racket dell’accattonaggio” che verso febbraio del 2014 fu stretto dai sindaci di Venezia, Padova e Treviso, città amministrate dal centro–sinistra, al fine di controllare, schedare ed espellere dal territorio nazionale poche decine (come ammesso da loro stessi) di “accattoni molesti o petulanti”. Pochi mesi dopo, lo scandalo del Mose avrebbe travolto il sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni, costringendolo alle dimissioni e palesando da che parte si annidi il vero racket.
Anche Firenze, che non è nuova a un tal genere d’iniziative (basta ricordare l’ordinanza del 2007 contro il “racket dei lavavetri”, il cui artefice, l’assessore Graziano Cioni, finì anch’egli travolto da una vicenda di corruzione [6]), si è dotata di una task force con lo scopo di fare pulizia etnica nella stazione di Santa Maria Novella: controlli serrati ai danni dei già citati “accattoni” e fogli di via per persone ree di manifesta povertà.
Tutto ciò incoraggia e si affianca alle imprese di organi di stampa e cittadini privati. Basta citare il fiorire di cartelli contro gli “zingari”, esposti dinanzi a esercizi commerciali e perfino a qualche parrocchia; e l’accanita campagna allarmistica del quotidiano Il Messaggero, fra gli altri, contro la mendicità e le piccole attività informali (svolte perlopiù da rom e romnì) nella Stazione Termini di Roma: una campagna finalizzata a raccogliere e rilanciare, amplificare e legittimare la “rabbia” di cittadini comuni[7].
E’ la tipica strategia del détournement: il rancore e la collera per la condizione sociale difficile che si vive possono essere così dirottati contro i più vulnerabili, invece che verso i veri responsabili.
Riferimenti bibliografici
Balibar Etienne, 2012, Cittadinanza (trad. di Fabrizio Grillenzoni), Bollati Boringhieri, Torino.
Burgio Alberto, 2010, Nonostante Auschwitz. Il “ritorno” del razzismo in Europa, DeriveApprodi, Roma.
Enzensberger Hans Magnus, 2007, Il perdente radicale, Einaudi, Torino.
Faso Giuseppe, 2009, Lessico del razzismo democratico. Le parole che escludono, Derive Approdi, Roma.
Guadagnucci Lorenzo, 2009, Lavavetri. Il prossimo sono io, Terre di Mezzo, Firenze.
Rivera Annamaria, 2014a, “Il ritorno delle ‘classi pericolose’”, blog MicroMega online, 12 aprile
Sacchetto Devi, Vianello Francesca Alice (a cura di), 2013, Navigando a vista. Migranti nella crisi economica, tra lavoro e disoccupazione, Franco Angeli, Milano.
Žižek Slavoj, 2011, “Le radici dell’odio e della convivenza”, Internazionale, 19 agosto: http://www.internazionale.it/opinioni/slavoj-zizek/2011/08/19/le-radici-dell%E2%80%99odio-e-della-convivenza/
NOTE
[1] La frase fu pronunciata nel corso di un’intervista con la giornalista Lucia Annunziata, nell’ambito della trasmissione Rai “In mezz’ora”. Vedi: “Renzi: ‘mi candiderò solo se ci saranno delle primarie serie’”, 17 giugno 2012: lanazione.it/firenze/cronaca/2012/06/17/730469-primarie-renzi-annunziata-mezz-ora-rai.shtml
[2] David Allegranti, “Matteo Renzi, il suo linguaggio ai raggi x”, dal Corriere Fiorentino, 3 marzo 20014: http://www.liberoquotidiano.it/news/11559460/Matteo-Renzi–il-suo-linguaggio.html
[3] Al contrario di ciò che hanno sostenuto alcuni commentatori in questa occasione, il termine spregiativo non è affatto caduto in disuso (da quindici anni, come ha sostenuto qualcuno).
[4] Alfano: “Stretta sulle spiagge
, italiani stufi dei vu’ cumprà”, 11 agosto 2014: http://www.repubblica.it/politica/2014/08/11/news/alfano_ambulanti_spiagge-93561629/?ref=HREC1-2
[5] Sebbene sia stato accolto anche nel lessico giuridico, questo termine, che non ha uguali in altri paesi dell’Unione europea, designa un insieme assai eterogeneo di persone, secondo il criterio della loro supposta estraneità alla comunità locale; e finisce per connotarlo, implicitamente o esplicitamente, come caratterizzato da una condizione di estraneità, d’irregolarità, se non d’illegalità. Che non si tratti di un termine neutro è dimostrato dal fatto che non sia mai adoperato per nominare stranieri di nazionalità statunitense, canadese, australiana e così via. Aggiungo che extracomunitari è adoperato spesso dallo stesso La Repubblica, insieme ad altri ugualmente connotativi come il frusto di colore. Quest’ultimo era presente, paradossalmente, nella stessa pagina on-line in cui si criticava Alfano, nel titolo e nel corpo dell’articolo dedicato alle proteste di Ferguson.
[6] Vedi, in proposito: Guadagnucci, 2009.
[7] Il 22 luglio 2014, Paolo Graldi, che aveva pubblicato nella sua rubrica una fotografia, inviata da un lettore, che mostrava “alcune giovani donne, riconoscibili come rom” a “presidiare le macchinette che emettono biglietti”, si vantava del milione e mezzo di visitatori, dei trecentomila che l’avevano rilanciata “per amplificarne la condivisione” e della “sventagliata di 3700 commenti a caldo, puntuali e penetranti, oppure impubblicabili, che inneggiano all’Olocausto, a Hitler, al napalm”: http://m.ilmessaggero.it/m/messaggero/articolo/roma/810372
(27 ottobre 2014)
fonte: https://archivio.micromega.net/crisi-e-xenofobia-i-migranti-come-capro-espiatorio/