Il provincialismo, la superficialità, i luoghi comuni, se non l’indifferenza, con cui molti media e politici italiani, anche di tendenze opposte, hanno trattato le prime elezioni democratiche tunisine non sono degni del ruolo cruciale che quella transizione ha non solo rispetto ad altre sollevazioni nel Maghreb e nel Mashrek, ma anche per gli assetti sociali e gli equilibri politici del Mediterraneo e oltre.
Basta un esempio. Mentre i commentatori italiani si angustiavano, se pur frettolosamente, per la vittoria schiacciante di Ennahda nelle elezioni dell’Assemblea costituente, in Tunisia qualcosa di ben più allarmante accadeva a soli quattro giorni dalle votazioni, svoltesi in un clima di partecipazione, festa ed entusiasmo perfino commoventi. A Sidi Bouzid, la città di Mohammed Bouazizi, martire ed eroe della rivoluzione, una folla inferocita assediava la sede del governatorato, innalzava barricate, dava alle fiamme il tribunale, il municipio e altre istituzioni pubbliche. E in tutta la regione gruppi di esagitati assaltavano le sedi di Ennahda.
Non era la ripresa della rivolta popolare, iniziata giusto in quella regione, né l’insorgenza contro il tradimento degli ideali rivoluzionari o contro l’aggravarsi della povertà e della disoccupazione, che lì raggiungono picchi massimi. Si trattava di ben altro: di una protesta violenta contro la decisione dell’Isie (l’Istanza superiore e indipendente per le elezioni) d’invalidare in sei circoscrizioni il voto di ’El Âridha Achaâbia (la Petizione popolare), una formazione resasi visibile sulla scena politica appena tre giorni prima del 23 ottobre. L’inventore di questo partito – populista e di genere mediatico-berlusconiano – è Hechmi Hamdi, un personaggio torbido al pari della sua creatura, come si può dedurre bene dal ritratto in due puntate che gli ha dedicato il quotidiano tunisino La Presse: http://www.lapresse.tn/30102011/39498/serial-retourneur-de-veste.html; http://www.lapresse.tn/30102011/39558/a-lombre-du-rcd.html.
Hamdi, originario della regione di Sidi Bouzid, è un miliardario che possiede fra l’altro un giornale e due emittenti televisive con sede a Londra. Ed è da Londra, dove risiede dal 1987, che egli ha diretto la sua campagna elettorale parallela e sotterranea. Nei primi anni Ottanta dirigente del movimento islamista nell’università, poi braccio destro di Rached Ghannouchi durante il suo esilio londinese, Hamdi rompe con il carismatico leader di Ennhada in seguito a oscure vicende di delazione. La sua biografia si dipana poi secondo il tratto costante del doppiogiochismo: il sostegno a Ben Ali e l’apertura della sua televisione agli oppositori più strenui del regime (che di conseguenza vengono regolarmente repressi); i legami con la dittatura benalista e con il sudanese Omar Al-Bashir, del quale, si vocifera, sarebbe un agente; e oggi la propaganda populista e la relazione con la rete delle cellule dormienti del disciolto RCD, il partito di Ben Ali. E’ soprattutto questa che gli ha permesso di ottenere un successo elettorale sorprendente. Se non fosse sopraggiunta, infatti, l’invalidazione del voto in sei circoscrizioni – per aver beneficiato di fondi privati e candidato ex membri del RCD – il suo partito sarebbe il quarto su scala nazionale. E a Sidi Bouzid il primo assoluto: 48mila voti contro i 19mila e rotti di Ennhada. Che ha accusato: dietro le violenze ci sono “forze controrivoluzionarie che vogliono bloccare il percorso democratico”.
C’è, dietro le valutazioni della situazione politica tunisina che sono correnti in Italia e in altri paesi europei, una pigrizia intellettuale, quando non è anche ignoranza, che induce a rifugiarsi dietro il vecchio schema dello spauracchio fondamentalista, senza sospettare che la transizione democratica corre rischi ben più gravi. Fra l’altro, a propriamente parlare, islamista è definibile un movimento politico che ha come obbiettivo esplicito l’instaurazione di un regime teocratico. Non è il caso di Ennhada, un partito sì di netta ispirazione musulmana e conservatore sul piano morale, ma anche sostenitore del pluralismo democratico (nonché liberista sul piano economico quanto riformatore sul piano sociale). Ennahda, infatti, finora ha giurato ripetutamente che rispetterà le libertà di culto, di pensiero e di espressione, che difenderà il Codice dello statuto personale e la libertà delle donne, che non imporrà ad alcuna di abbigliarsi in un modo o nell’altro. Niente garantisce che manterrà queste promesse, anche perché nel suo seno alberga una corrente estremista che non è facile tenere a bada. Ma per ora questo è lo stato dei fatti, almeno sul piano del programma e delle dichiarazioni ufficiali.
Più che il trionfo del partito “islamista” – una vittoria prevista, sebbene non in proporzione così schiacciante: 90 seggi su 217 –, ciò che dovrebbe inquietare chi ha a cuore le sorti della transizione democratica tunisina sono i rigurgiti miasmatici del benalismo, la sua strategia fondata sull’infiltrazione e la provocazione, la permanenza dei vecchi arnesi della dittatura nel ministero dell’Interno e negli apparati repressivi. Fra l’altro, la Petizione popolare non è la sola ad aver infiltrato con successo le elezioni democratiche tunisine. C’è anche Al Moubadara (L’Iniziativa), nata da una scissione del RCD, che ha ottenuto 5 seggi, finora purtroppo non contestati.
Insieme a questo, vi sono altre fonti di preoccupazione. Gli apparati repressivi e giudiziari non sono stati affatto epurati dagli elementi più compromessi nella repressione degli oppositori. La pratica degli arresti illegali e perfino della tortura è tuttora in corso. La libertà di stampa è solo di facciata, con qualche eccezione. Le ineguaglianze sociali e gli squilibri regionali si acuiscono sempre più. La miseria e la disoccupazione continuano ad affliggere buona parte della popolazione. Il liberismo che caratterizzava la politica economica e sociale del vecchio regime non è stato neanche messo in discussione…
Tutto ciò crea il putrido pantano nel quale sguazzano i benalisti e i loro servitori attuali. Ed è sulla delusione e la disperazione sociale delle regioni più povere ed emarginate che si basa la torbida strategia del miliardario Hamdi. Prima ancora che l’Isie annunciasse l’invalidazione nelle sei circoscrizioni, da Londra egli aizzava gli abitanti di Sidi Bouzid perché insorgessero contro Ennahda, che li avrebbe definiti incolti e miserabili; rea, in realtà, d’aver rifiutato ogni alleanza col suo partito, motivando seccamente il rifiuto: “Stringiamo alleanze solo con chi ha combattuto il regime di Ben Ali”.
Eppure la maggioranza degli elettori tunisini di fatto ha premiato chi rappresenta l’opposizione netta al vecchio regime: in primo luogo Ennahda, che la ha pagata con decenni di repressione e persecuzione; in secondo luogo il CPR (Congresso per la Repubblica) di Moncef Marzouki, ex presidente della Lega tunisina dei diritti umani, al tempo di Ben Ali incarcerato, poi espulso dalla sua università, infine costretto all’esilio per dieci anni.
Il trionfo del partito di Gannouchi si spiega forse con tre motivazioni principali. La prima è quella appena detta, che s’intreccia probabilmente col rimorso di una parte della società tunisina: ho votato per
loro – hanno dichiarato alcuni elettori, giovani e anziani, a Isabelle Mandraud, inviata di Le Monde – perché sono loro che hanno sofferto di più sotto il regime di Ben Ali. Il voto è stato dunque vissuto anche come un atto riparatore, come una compensazione del passato doloroso di carcere, torture, esilio, clandestinità, con cui Ennahda ha pagato la sua coerente opposizione al regime. La seconda motivazione ipotetica è che questo partito rappresenti per una buona fascia di elettori la prospettiva del ritorno all’ordine ma senza concessioni allo stile, alla pratica e ai rappresentanti più o meno occulti del vecchio regime: in definitiva il cambiamento ma senza scosse e precipitazioni. Una terza spiegazione è di tipo identitario: gli elettori hanno voluto riappropriarsi del diritto di definirsi musulmani, mortificato dal benalismo.
Cosa il futuro riservi alla Tunisia è arduo da prevedere. Quel che è certo è che la Tunisia del dopo-rivoluzione è densa di espressioni progressiste della società civile e politica. Sicché non sono affatto da sottovalutare le potenzialità delle molte associazioni democratiche e dei partiti di sinistra, per quanto questi ultimi siano spesso accusati, non del tutto a torto, d’essere ideologici, elitari, divisi fra loro, distanti dalle “masse popolari”. Forse, una volta inseriti nel gioco democratico, apprenderanno le virtù dello spirito unitario, della concretezza politica, della capacità di rappresentare i bisogni delle classi subalterne. Ma quel che si deve auspicare, soprattutto, è la ripresa di un protagonismo popolare che riproponga e rilanci gli ideali e le rivendicazioni che hanno condotto alla sconfitta del regime benalista.
(2 novembre 2011)