Ora che si è spenta la protesta della Coldiretti contro «i finti prosciutti», provo a proporre un punto di vista che non sia ottusamente specista come quello che è prevalso in occasione delle due manifestazioni di coltivatori e allevatori: il 4 dicembre al valico del Brennero e il giorno dopo a Montecitorio. Per la Coldiretti, per gran parte dei giornali, compreso il nostro, per lo stesso Carlo Petrini di Slow Food (sul manifesto del 5 dicembre), non v’è dubbio che i maiali siano materia prima al pari dei minerali, dei metalli, del legname o, se vogliamo, delle spighe di grano.
Che appartengano, insomma, alla categoria del grezzo originario, per usare una formula sinonimica.
Continuano a esserlo anche allorché, nel corso della manifestazione in piazza Montecitorio compaiono, vivi e vegeti, otto «porcellini» portati dagli allevatori per offrirli «provocatoriamente» in adozione alle istituzioni. Qui la materia prima diviene degna non solo del vezzeggiativo, ma anche di carezze – si tratta pur sempre di cuccioli – da parte degli stessi della Coldiretti. Perfino d’essere adottata, sebbene, dobbiamo ammetterlo, sia raro che si adotti un essere vivente al fine di massacrarlo. La schizofrenia si materializza oscenamente quando, a poca distanza dagli otto lattonzoli – disorientati, forse terrorizzati-, dal palco vengono mostrate cosce di maiale «contraffatte» in quanto made in Germany. Come a incoraggiare i maialini: sì, è il destino che vi attende, ma siate orgogliosi, voi che diventerete invece autentici prosciutti made in Italy.
È questo il solo scandalo: che non si sappia da dove venga la merce e dove sia prodotta. Scandaloso non è che, in Italia come altrove, animali tra i più intelligenti, sensibili, evoluti, con competenze nel gioco superiori a quelle di un bambino di tre anni, siano spesso allevati in condizioni da lager, sottoposti a sevizie e torture, infine appesi a testa in giù e sgozzati: in alcuni casi ancora coscienti, non solo durante il dissanguamento, ma anche allorché vengono immersi in vasche di acqua bollente per essere spellati più facilmente. Di che indignarsi? È la logica della catena di smontaggio, bellezza: il ritmo è talmente frenetico che non si può certo andare per il sottile.
Lo stesso giorno in cui riferiva della manifestazione davanti a Montecitorio, Repubblica.it ospitava un servizio dai toni patetici, corredato con foto commoventi, sulla tragica sorte del maialino Ettore: sfuggito alla donna che si prendeva cura di lui come di altri pets (Ettore coabitava con dei cani), le viene restituito, tagliato a pezzi, da una squadra di vigili del fuoco che intendeva farne banchetto, dopo averlo, si dice, anche catturato e ucciso.
Se si prova a ragionare secondo logica ed etica, la domanda sorge ovvia: forse che il crimine dei pompieri è più grave di quello di un qualsiasi allevatore di suini o produttore di salumi? In realtà, se si esercita senso critico, non apparirà così banale o scontato che individui appartenenti alla famiglia del Sus domesticus possano, sì, essere talvolta oggetto di attenzione, finanche di affetto – e allora sono «maialini» o «porcellini» – ma solo fino a che non sono catturati dal meccanismo della produzione e del mercato, che li trasforma in materia prima, poi in merce. È la conferma della teoria marxiana del feticismo delle merci, il quale non è solo personificazione delle cose, ma anche reificazione dei viventi. Come mai questa riflessione è estranea anche alle penne meno grezze? Come mai Slow Food, interessata per vocazione alla prospettiva del bioetico, del sinergico, della sostenibilità, non se ne lascia sfiorare? E come mai neanche un cenno alle dure condizioni di lavoro e sfruttamento degli operai, in molti casi immigrati, che lavorano nel settore dell’allevamento o alla catena di smontaggio degli animali da macello oppure alla trasformazione della «materia prima» in salumi? Per fare un solo esempio, il 30 agosto di quest’anno, Mario Orlando, operaio nel salumificio Scarlino di Taurisano (Lecce), finì i suoi giorni stritolato da un’impastatrice. Come un qualsiasi maiale.
È vero, l’agroalimentare è un settore che risente pesantemente della crisi economica. Secondo una ricerca della Coldiretti, in Italia sono state chiuse quasi 140mila fra stalle e aziende, anche a causa della concorrenza sleale «dei prodotti importati dall’estero e spacciati per made in Italy».
Ma non sarà che le difficoltà a fronteggiare la crisi siano dovute anche a scarsa capacità di innovazione? Com’è noto, nei paesi occidentali, perfino negli Stati Uniti, il consumo di carne è in netta regressione. Cambiano gli stili alimentari, non solo a causa della crisi, e progressivamente guadagna spazio il mangiar vegetariano o vegano. Anche per questo il mercato va restringendosi. E spesso per ridurre i costi di produzione s’intensifica lo sfruttamento dei lavoratori, fino a instaurare rapporti di tipo servile, se non schiavile. E allora a risolvere il problema non basta la richiesta di un’efficace normativa sulla tracciabilità dei prodotti alimentari. Si dovrebbe guardare lontano, essere capaci di un radicale cambiamento di prospettiva così da concepire produzioni che salvaguardino la vita di umani e non umani.
Si sa: per mantenere gli allevamenti industriali, si utilizza più della metà dei cereali e della soia che si producono nel mondo, sottraendola a popolazioni sottoalimentate o ridotte alla fame (almeno un miliardo di persone). Ammettere che gli animali non umani non sono materie prime o merci, bensì soggetti di vita senziente, emotiva e cognitiva, significa anche porsi nella direzione di un progetto economico, sociale e culturale che abbia come cardini la sobrietà, la redistribuzione delle risorse su scala mondiale, l’uguaglianza economica e sociale, in definitiva il superamento dell’ordine capitalistico.
Fonte: https://archiviopubblico.ilmanifesto.it/Articolo/2003217903