Tunisia IN BIANCO E NERO

Il 1° maggio scorso il centro di Tunisi ha visto un evento degno di nota. Non alludo alla consueta manifestazione per la Festa dei Lavoratori promossa dall’Ugtt, la più importante centrale sindacale: quest’anno, in verità, tutt’altro che rituale, per la massiccia presenza delle forze dell’ordine e il carattere di dura opposizione al governo della Troika. Mi riferisco, invece, a un avvenimento che può definirsi storico: per la prima volta dopo la rivoluzione del 14 gennaio e forse nella storia della Tunisia indipendente, i cittadini tunisini neri hanno sfilato nella capitale contro discriminazioni e segregazione, reclamando una legge che li riconosca e li protegga in quanto minoranza. Quel corteo ha infranto il tabù del razzismo: profondamente radicato nella società eppure innominabile, interdetto (nel senso letterale del termine), soprattutto a causa di una storia nazionale che ha esaltato l’unità del popolo contro il colonialismo. Le retoriche nazionaliste conseguenti avevano finora rappresentato la Tunisia come culla della tolleranza, della convivenza, del pluralismo; e il razzismo come un fenomeno che riguarderebbe solo i paesi del Nord del mondo verso i quali si emigra.

In realtà, esso è ben presente nelle relazioni quotidiane, anche come retaggio dello schiavismo e come riflesso della condizione sociale marginale che toccò ai tunisini neri dopo l’affrancamento (la Tunisia abolì la schiavitù nel 1846, prima della Francia e di molti altri paesi). In tal senso è significativo che termini come oussif e abid («servo», «schiavo») siano usati abitualmente per dire semplicemente «nero». In realtà, la minoranza nera, che abita soprattutto nell’estremità meridionale del Paese -a Jerba, Gabès, El Hamma…- risale in gran parte, ma non tutta, all’epoca del commercio degli schiavi. Come puntualizza lo storico Abdelhamid Larguèche, fin dalla protostoria vi sono stati gruppi di popolazione nera che si spostavano dall’Africa centrale verso il Nord Africa e gruppi di berberi che emigravano dal Nord verso il Sud. Nondimeno, come altri paesi del Maghreb, la Tunisia tiene a distinguersi nettamente dall’Africa: qui, quando si dice «africani», perlopiù ci si riferisce ai soli subsahariani.

Il corteo antirazzista del 1° maggio è stato il frutto di una gestazione iniziata pochi mesi dopo la rivoluzione del 14 gennaio. Le sue tappe più importanti sono state la creazione di un forum su Facebook dedicato alla «cittadinanza parziale» dei neri tunisini e la costituzione dell’associazione antirazzista Adam, che il 12 giugno 2012 ha fatto la sua prima uscita pubblica con un seminario sul tema. Malgrado queste iniziative, l’insurrezione popolare che ha affossato la dittatura e la difficile quanto esuberante transizione non avevano finora scalfito razzismo e omofobia. Anzi, secondo alcuni testimoni, gli atti di violenza omofobica e razzista si sarebbero moltiplicati dopo la caduta del regime, anche grazie all’uscita dalla clandestinità o dalle prigioni degli islamisti estremisti e quindi al dilagare sulla scena pubblica di formazioni d’ispirazione salafita e wahabita. Giusto poche ore prima del corteo, la notte fra il 29 e il 30 aprile, nel quartiere Lafayette, al centro di Tunisi, un gruppo di abitanti aveva assalito a colpi di pietra un edificio abitato da studenti universitari subsahariani. La polizia, chiamata da uno studente senegalese, lo aveva fermato e trattenuto in commissariato per alcune ore, guardandosi bene dal disturbare gli assalitori.

Già questo solo episodio segnala che il razzismo non riguarda solo i cittadini tunisini neri, i wassif, come essi stessi si definiscono per rovesciamento di un termine stigmatizzante. Esso colpisce ancor più le persone provenienti da paesi subsahariani, in gran parte funzionari e studenti. Al tempo del vecchio regime si tendeva di solito a proteggere i primi per ragioni diplomatiche, i secondi perché utili in quanto maggioritari nelle università private.

Oggi, invece, raccontano alcuni studenti subsahariani, le cose sono cambiate in peggio e lo stesso comportamento delle forze dell’ordine è spesso indifferente o compiacente verso comportamenti razzisti anche aggressivi.

Si potrebbe aggiungere qualche nota sul trattamento riservato ai rifugiati e richiedenti asilo – soprattutto eritrei, somali e sudanesi – tuttora segregati nella tendopoli di Choucha, a sette chilometri da Ras Jedir, al confine con la Libia. Da febbraio a maggio del 2011, la Tunisia era riuscita ad accogliere ben 500.000 rifugiati provenienti dalla Libia, dando una lezione di superiorità all’Italia e meritando l’encomio solenne dell’Alto Commissariato Onu per i rifugiati. La prima fase, che aveva visto arrivare soprattutto lavoratori egiziani, era stata contraddistinta, infatti, da un ammirevole slancio di solidarietà delle popolazioni e delle autorità locali. Più tardi, dopo l’ondata massiccia di arrivi di rifugiati subsahariani, quella che si era annunciata come un’accoglienza generosa viene offuscata da alcuni incidenti, anche mortali. Nella settimana dal 21 al 27 maggio 2011 e più tardi, a marzo del 2012, centinaia di abitanti della vicina città di Ben Gardane, assalgono e incendiano più volte la tendopoli. Gli incidenti costringono molti rifugiati a fuggire nel deserto e provocano almeno sei morti, tutti eritrei.

È indubbio che l’ostilità della popolazione sia stata favorita dalla lentezza delle procedure per l’asilo (ancor oggi la Tunisia non ha una legge ad hoc), dall’impasse giuridico ed esistenziale in cui oggi i rifugiati sono intrappolati, dal degrado progressivo del campo, dall’abbandono da parte degli organismi internazionali, anche dell’Unhcr, nonché delle autorità tunisine e anche della società civile, con l’eccezione del Ftdes (il Forum tunisino dei diritti economici e sociali). Ma, come ha osservato Amna Guellali, rappresentante in Tunisia di Human Rights Watch, la pessima condizione attuale dei rifugiati subsahariani «è dovuta anche e in gran parte al razzismo anti-neri che perdura nella mentalità dei tunisini e che esiste da lungo tempo verso gli stessi neri tunisini».

Rispetto a tutto ciò, il corteo del 1° maggio potrebbe essere il segnale di un’inversione di tendenza. Oltre tutto, i wassif sembrano essere gli antesignani di una presa di parola che presto riguarderà anche altre minoranze. Per esempio, quelle dei gay e delle lesbiche, ugualmente vittime di discriminazioni e aggressioni ma ridotti/e al silenzio da un interdetto ancor più tenace: pur essendo assai diffusa, l’omosessualità è denegata quanto repressa. Basta dire che tuttora è in vigore la norma (art. 230 del Codice penale) che punisce il reato di sodomia con una pena che arriva «solo» fino a tre anni di carcere se l’atto è consensuale. Qualche segno di coming-out già va manifestandosi: recentemente Yamina Thabet, presidente dell’Associazione tunisina di sostegno alle minoranze, ha lanciato un appello per la depenalizzazione di questa norma odiosa, spesso utilizzata ai danni di oppositori politici.

Insomma, la caduta del regime ha innescato un processo di presa di coscienza collettiva, disinibizione di massa, liberazione della parola tale che non si ha più paura di violare costumi, tabù e interdetti per rivendicare a piena voce i propri diritti.

 

Fonte: https://archiviopubblico.ilmanifesto.it/Articolo/2003210759