Teatro municipale, Avenue Bourguiba, nel cuore di Tunisi: una silhouette umana annerita dalle fiamme, abiti e capelli bruciati, sta seduta immobile sul pavé bianco, in posizione da bonzo vietnamita. Alla sua altezza, qualche metro lontano, alcune paia di stivali da poliziotti ne fanno risaltare la solitudine e il distacco. Quella silhouette è Adel Khadri. Si è dato fuoco poco prima, non soccorso da alcuno: eppure siamo nell’arteria più importante della capitale, percorsa da un flusso continuo di passanti, densa di caffè eleganti, sorvegliata da esercito e polizia.
Morirà poche ore dopo, all’alba del 13 marzo 2013, a 27 anni: stessa età di Mohamed Bouazizi, nello stesso ospedale di Ben Arous, entrambi piccoli ambulanti vessati dalla polizia municipale. Come lui disoccupato e orfano di padre, la madre e tre fratelli da mantenere, Adel aveva lasciato Souk El-Jemaâ, borgo sperduto fra le montagne dell’Atlante, per venire a Tunisi a cercare lavoro. Aveva dovuto accontentarsi, invece, di quell’attività meschina da venditore abusivo di sigarette di contrabbando nel mercato di Moncef Bey. Lo stesso che l’11 maggio scorso era stato teatro del suicidio per fuoco, con esito ugualmente letale, di un altro venditore di sigarette. Allora a farne scattare la molla erano stati l’intervento di un gruppo di agenti, il loro tentativo di estorsione, condito con insulti e minacce. Per Adel Khadri l’umiliazione e la disperazione erano sopraggiunte con una retata della polizia che aveva scacciato gli abusivi dal mercato.
Non potrebbe essere simbolicamente più denso l’ultimo suicidio per fuoco in Tunisia. Non solo perché è il primo ad avere per sfondo l’Avenue Bourguiba e le scale del Teatro municipale animate da continui sit-in di protesta. Non già perché raro o singolare: la catena di autoimmolazioni pubbliche che si distende da ben prima e ben dopo Bouazizi non è stata neppure intaccata dal crollo del regime benalista e da ciò che ne è seguito. Né esso si discosta dallo schema consueto: quasi sempre è gesto di rivolta contro l’umiliazione inflitta da qualche rappresentante del potere; quasi sempre la torcia umana è vendicata dai suoi simili con tumulti, anche assai violenti: questa volta “solo” un sit-in dei venditori abusivi di Moncef Bey.
La più recente torcia umana è emblematica anche perché rivela della transizione e soprattutto della condizione giovanile attuale più di tante analisi. Adel Khadri era rappresentativo di quell’ampia fascia di giovani proletari e sottoproletari della Tunisia profonda e dei quartieri urbani diseredati che non hanno alcun futuro, alcuna speranza di riscatto sociale: neppure la possibilità di emigrare clandestinamente, per cui, come si sa, esige che si disponga di un piccolo capitale.
È la stessa categoria sociale che regala militanti alla nebulosa dei gruppuscoli salafiti e jihadisti. Se gran parte della popolazione giovanile tunisina ha inclinazioni e comportamenti secolarizzati e moderni, addirittura “modaioli”, come diremo, esistono tuttavia gruppi di giovani, socialmente sfavoriti – spesso marginali o piccoli delinquenti -, che si uniscono ai salafiti per compensare la frustrazione sociale, sfuggire alla disperazione e farsi rispettare.
C’è un abisso fra questa condizione giovanile e quella degli studenti dei più vari licei tunisini. Gli stessi che oggi sfidano l’autoritarismo di Ennahdha e il bigottismo salafita ballando l’Harlem Shake, al pari di milioni di coetanei in tutto il mondo. Questa moda dilagante, che in Tunisia come in altri paesi, è diventata uno strumento di protesta, ha esordito il 23 febbraio 2013. Quando un videoclip diffuso in rete, che mostrava un gruppo di studenti e studentesse che facevano Harlem Shake nella corte di un liceo di El Menzah, nella banlieue di Tunisi, scandalizzò il ministro dell’Educazione, Abdellatif Abid, il quale ordinò un’inchiesta. Per protesta contro il ministro si è cominciato a ballare in altri licei e perfino davanti alla sede del ministero dell’Educazione. Il che ha attirato le aggressioni di gruppi di salafiti, cosa che ha contribuito a diffondere ancor più questa moda, diventata così una forma di resistenza contro l’islamismo.
Non che questi studenti e studentesse siano dei privilegiati, ma certo non sono i disperati che, dopo essere stati i protagonisti principali dell’insurrezione popolare che ha costretto alla fuga il despota e la sua corte mafiosa, oggi sono dimenticati e abbandonati alla disoccupazione e all’indigenza crescenti. Le quali hanno cause molteplici. Infatti, agli effetti della crisi economica mondiale, alla fuga d’investitori e imprenditori stranieri, al crollo del turismo si è sommata l’impennata del tasso d’inflazione e del prezzo dei carburanti. Intanto il Fondo monetario internazionale cerca d’imporre un Piano di aggiustamento strutturale che esige l’aumento di tasse e imposte, la revisione dei salari e della protezione sociale, il congelamento per tre anni della Cassa di compensazione (quella che stabilizza i prezzi dei prodotti di base). Se accettate, le “riforme” prescritte dal Fmi – un’autentica iattura per le economie dei Paesi dipendenti – aggraveranno ancor più le condizioni di vita delle classi subalterne tunisine.
Temiamo che non sarà una Troika appena imbellettata dal rimpasto affidato all’ex ministro dell’Interno e dall’ingresso di qualche ministro più o meno indipendente ad attenuare le gravi sofferenze sociali e le feroci gerarchie di classe: quelle che alimentano il fenomeno delle autoimmolazioni di protesta o riproducono la spirale di rivolte spontanee e repressione che è tipica della storia della Tunisia indipendente. Se mai, c’è da sperare non solo nell’attivismo della società civile e nella forza delle rivendicazioni e dei conflitti sociali, ma anche nel rafforzamento dell’opposizione di sinistra. La risposta di massa all’omicidio di Chokri Belaid – almeno un milione e mezzo di manifestanti il giorno delle sue esequie – ha rinvigorito infatti l’opposizione e conferito un certo prestigio al Fronte popolare.
È in questo quadro che dal 26 al 30 marzo si svolgerà il Forum sociale mondiale di Tunisi. Potrebbe essere un’ottima occasione per discutere, fra i tanti temi, dei conflitti non sufficientemente rappresentati, quelli che si esprimono anche attraverso corpi che bruciano nelle piazze. Un tema quasi universale poiché dal Maghreb al Mashrek, dall’Africa all’Europa, sempre più spesso si accendono torce umane a denunciare gli effetti non solo della crisi economica, ma anche della crisi della rappresentanza.
Fonte: https://archiviopubblico.ilmanifesto.it/Articolo/2003208245