Non c’è questione più controversa delle cosiddette mutilazioni dei genitali femminili. Questa stessa definizione, legittimata dagli organismi internazionali, è oggetto di dispute tutt’altro che nominalistiche, poiché rispecchiano orientamenti divergenti. A parere degli antropologi che se ne sono occupati, tale designazione, all’interno della quale rientra in realtà una vasta gamma di procedimenti, ha incorporato una logica etnocentrica, che «mostrifica» l’evento centrale di un complesso rito di passaggio e lo riduce alla semplice e barbara violazione dell’integrità del corpo femminile. In una prospettiva non etnocentrica, le Mgf appaiono come una delle tante pratiche attraverso le quali i corpi vengono modellati, per renderli conformi a un ideale morale e sociale, sempre relativo ai contesti storici, così come relative alle culture sono le idee di integrità/non-integrità.
Per comprendere la rete di significati cui le Mgf rimandano, per affrontare i dilemmi e i conflitti etici e normativi ai quali ci sfidano, è necessario un lavoro di analisi che consenta di coglierne tutta la complessità sociale e culturale: i toni scandalistici e i giudizi sommari che poggiano sulle categorie barbarie/civiltà serviranno forse per offrire un ulteriore argomento agli imprenditori politici e mediatici del razzismo, ma certo sono inefficaci per affrontare, anche sul piano pragmatico, una così spinosa questione.
Con audacia e rigore il libro di Carla Pasquinelli Infibulazione. Il corpo violato (Meltemi 2007) si cimenta con l’impresa di dipanare il groviglio di temi ai quali le Mgf rinviano, prendendo le mosse da una controversia pubblica, ma trascendendola attraverso gli strumenti interpretativi dell’antropologia. Il motivo contingente all’origine del libro è il dibattito che si accese nel 2004 intorno alla proposta del medico dell’ospedale fiorentino di Careggi, Omar Abdulcadir, direttore del «Centro per la prevenzione e la cura delle complicanze legate alle Mgf», il quale suggeriva di sperimentare nelle strutture sanitarie pubbliche una estrema stilizzazione dell’infibulazione – una puntura di spillo – come male minore di fronte al rischio del perdurare delle forme più cruente di quella pratica. La proposta di Abdulcadir, che aveva ricevuto sostegni istituzionali autorevoli, una volta rimbalzata sulla scena mediatica, divenne oggetto di una querelle dai toni estremi. La formazione di due opposti schieramenti e le reciproche accuse di etnocentrismo non giovarono al dibattito, che infine condusse a esiti opinabili: la condanna morale di Abdulcadir e la bocciatura della sua proposta da parte della Giunta regionale toscana, e l’approvazione di una legge speciale, la 7/2006, che punisce con la reclusione da quattro a dodici anni «chiunque cagiona una mutilazione degli organi genitali femminili». Una legge, a parere di Pasquinelli, «di decisa impronta colonialista» poiché «discrimina le responsabilità delle persone sulla base della loro appartenenza etnica».
L’antropologa poggia questo giudizio così netto su due argomentazioni. La prima: la Costituzione e il codice penale sono strumenti sufficienti a sanzionare ogni forma di lesione grave e gravissima. La seconda: se l’inviolabilità del corpo è un principio assoluto, si dovrebbero ugualmente vietare il piercing, la circoncisione maschile, i cambiamenti di sesso. Su quest’ultima pratica, legittimata da una sentenza della Corte costituzionale del 1985, l’autrice rivolge uno sguardo decentrato che ne fa emergere la problematicità. In fondo, scrive l’antropologa, un intervento chirurgico così distruttivo («asportazione di vagina, utero, ovaie, tube, seni, per limitarci al corpo femminile») risponde alla stessa logica simbolica che presiede alle Mgf: «eliminare l’ambiguità dai corpi femminili». Invero, per noi è più agevole ammettere che il conflitto, tutto mentale e sociale, fra il sesso «naturale» e il genere psicologico possa essere risolto con un drastico intervento chirurgico, piuttosto che accettare l’androginia originaria e la nostra costitutiva ambivalenza sessuale. Certo, chi si sottopone a interventi transgender ha compiuto una scelta ed è consenziente, sia pure nei limiti concessi dalla forza dei modelli culturali dominanti.
«In tutte le società sono presenti dispositivi di controllo attraverso cui il potere si insedia nei corpi, li costruisce e nello stesso tempo li disciplina», scrive l’autrice sulla scia di Foucault. Ma noi viviamo i nostri corpi come neutri, integri o «normali» mentre percepiamo i corpi degli altri come difformi, connotati o mutilati. Tuttavia, aggiunge Pasquinelli, con le Mgf «siamo oltre la costruzione e il disciplinamento dei corpi» poiché esse si iscrivono in un sistema che mira al totale assoggettamento delle donne al potere maschile. A suo parere, uno dei suoi cardini è costituito dal «compenso matrimoniale» (il bridewealth), versato dalla famiglia dello sposo a quella della sposa «in cambio di una donna illibata, vergine, ovvero operata»: le aree in cui permangono le Mgf coincidono, infatti, con quelle in cui era o è tuttora diffuso il bridewealth.
Ciò detto, non possiamo cavarcela imputando a un a-storico sistema patriarcale la molteplicità storicamente variegata delle iatture che colpiscono il genere femminile. Anzitutto perché vi sono culture che conoscono le mutilazioni dei genitali maschili, dalla circoncisione alla scarificazione longitudinale del pene, ugualmente volte a rimuovere l’androginia originaria. In secondo luogo, perché le Mgf sono parte di un ordine simbolico interiorizzato e condiviso dalle stesse donne, senza il cui attivo consenso non esisterebbero.
A decidere dell’abbandono di questo costume, ipotizza infine l’autrice, non sarà qualche opera di pedagogia sociale elaborata in occidente ed elargita col paternalismo tipico di chi vede solo la barbarie degli altri; saranno piuttosto grandi processi come le migrazioni, le guerre, la crescente influenza dell’islamismo, ostile a questa pratica eterodossa, e l’altrettanto crescente protagonismo femminile, che non è monopolio occidentale.
Fonte: https://archiviopubblico.ilmanifesto.it/Articolo/2003117719