Di Cristiana Scoppa
A ripercorrere gli articoli usciti nel tempo sulle varie riviste e giornali con i quali Annamaria Rivera ha collaborato e collabora, raccolti per la prima volta in questo sito, ciò che si coglie è il desiderio instancabile di stimolare una riflessione e generare un confronto, uno scambio. In questo desiderio di “istituire una feconda dialettica”, il suo punto di vista è sempre situato e originale, consolidato dalle sue ricerche e ancorato nei suoi libri, nutrito dall’intuizione e dalla relazione, come racconta in questa conversazione.
Qual è stato il motore che ti ha spinto a scegliere l’antropologia come percorso di studi prima e di ricerca poi?
I “motori” sono stati molteplici. Penso che abbiano avuto un ruolo anche la formazione marxista nonché la conoscenza, già da studentessa, dell’opera del grande antropologo Claude Lévi-Strauss. Vi è poi il “motore” della conoscenza di e dell’ammirazione per Ernesto De Martino, antropologo, storico delle religioni e filosofo: anche in tal caso ne conoscevo le opere sin da studentessa. Tra i “motori” v’è anche la frequentazione di Vittorio Lanternari, etnologo e storico delle religioni, che avrebbe influenzato le mie scelte intellettuali: allorché insegnò nell’Università di Bari, io, non ancora laureata, gli feci da assistente, in sostanza. A proposito dell’influenza dei due, non per caso una delle mie prime opere rilevanti è stata Il mago, il santo, la morte, la festa. Forme religiose nella cultura popolare (Dedalo, Bari 1988).
Nel tuo percorso la ricerca, l’elaborazione teorica e l’attivismo – in particolare sul fronte del razzismo ma non solo – si sono coniugati: perché è importante tenere insieme questi ambiti e come vedi il futuro della tua disciplina dal punto di vista del suo impatto politico?
Anzitutto va rimarcato il ruolo decisivo della ricerca sul campo e della osservazione partecipante (solo in apparenza un ossimoro) che caratterizzano l’etnologia e l’antropologia. Non si può praticare l’una e l’altra senza essere presenti nel campo di ricerca che si è scelto. E questo implica non solo l’osservazione, ma anche la partecipazione e il contatto diretto con situazioni e persone relative al tema della propria ricerca, nonché la collaborazione, anche intellettuale (in senso lato), con gli attori e le attrici sociali. Così, entrando in contatto diretto con persone “in carne e ossa”, come si dice, non si può evitare di essere coinvolte nelle loro vite e nei loro problemi o drammi. Il che sollecita il decentramento rispetto ai valori dominanti e l’impegno, anche politico.
Per quanto riguarda il futuro politico della mia disciplina, credo non si possa generalizzare: non tutte/i le antropologhe e gli antropologi praticano la dialettica tra impegno di ricerca e impegno politico.
Quanto a quest’ultimo, io l’ho praticato intensamente e ciò, a sua volta, ha influenzato la scelta dei miei temi di ricerca: mi sono occupata e mi occupo di razzismo anche perché -per dirne solo una- sono stata, insieme col grande Dino Frisullo, portavoce della Rete antirazzista nazionale, la quale, a metà degli anni ’90 del Novecento, riuscì a coordinare un gran numero di associazioni di volontariato, organizzazioni sindacali e gruppi locali.
Inoltre, ho pubblicato un libro quale Il fuoco della rivolta. Torce umane dal Maghreb all’Europa (Dedalo, Bari 2012), che ha conosciuto anche un’edizione francese, perché ho seguito puntualmente e sul campo l’evolversi della rivoluzione tunisina (dopo la caduta del regime di Ben Ali); e ciò da antropologa, ma anche da attivista.
Nei tuoi libri metti a nudo ed esplori l’impianto sistemico – culturale, storico, politico – di razzismo, sessismo e specismo: cosa unisce questi temi e perché è importante affrontarli insieme?
Credo che fra i tre diversi sistemi di oppressione vi sia un rapporto d’intersezionalità o, per meglio dire, una dialettica, una continuità soprattutto per quel che riguarda i processi di reificazione e dominazione. La dialettica negativa proposta da Theodor W. Adorno, secondo il quale il sé dell’umano si produce per mezzo dell’attiva negazione dell’altro/a-da-sé, legata al dominio sulla natura, non riguarda solo il rapporto fra uomini e donne, fra noi e gli altri/le altre, ma anche quello fra umani e non-umani.
Scrivere articoli sui giornali è da sempre stato un tratto del tuo modo di fare divulgazione antropologica e insieme stimolare riflessioni e azioni politiche: l’avvento dei social network, l’accelerazione e la frammentazione del panorama mediatico rappresentano una opportunità o un rischio per il cambiamento che cerchi di stimolare?
Sono tanto un’opportunità quanto un rischio. Credo che tutto dipenda dai contenuti e dallo stile dei propri messaggi.
Come mai alcuni dei tuoi saggi sono stati pubblicati in Francia o comunque in francese e non pochi di quelli in italiano hanno come co-autori studiosi francesi o francofoni?
Perché ho istituito intensi rapporti di collaborazione con alcuni studiosi, quali lo storico (soprattutto del Maghreb) René Gallissot e l’antropologo Mondher Kilani, nonché con centri di ricerca quale l’Institut Maghreb-Europe dell’Université de Paris 8. E questo ha anche favorito il fatto che un’importante casa editrice com’è La Découverte pubblicasse nel 2010 il mio Les dérives de l’universalisme. Ethnocentrisme et islamophobie en France et en Italie.
Verso la fine degli anni ’80 del Novecento avevo svolto un lungo lavoro di ricerca grazie alla frequentazione del Barnard College della Columbia University (a New York), cosa che mi diede la possibilità di scrivere e pubblicare il saggio Frammenti d’America. Arcaico e postmoderno nella cultura americana (Dedalo, Bari 1993).
Formare le nuove generazioni – attraverso l’insegnamento, la divulgazione, l’attivismo – è imprescindibile: quali suggerimenti vorresti dare ai/lle giovani alla luce della tua esperienza?
Non vorrei dare loro alcun suggerimento. Vorrei, invece, che esponenti delle “nuove generazioni” si avvicinassero a ciò che penso, elaboro, scrivo, per poter istituire con loro una feconda dialettica.
* Conversazione raccolta da Cristiana Scoppa