Per ciò che riguarda migrazioni, diritti dei/delle migranti, razzismo e antirazzismo, il discorso pubblico italiano, anche nelle sue varianti non-razziste, spesso sembra atteggiarsi come se ogni volta fosse la prima: gli antefatti e lo sviluppo di questo o quell’accadimento, di questo o quel problema, di questa o quella rivendicazione, di questo o quel concetto sono semplicemente rimossi.
Una tale smemoratezza, per così dire, non riguarda solo le retoriche pubbliche maggioritarie, ma talvolta influenza l’atteggiamento e il discorso delle minoranze attive, riflettendosi anche nel linguaggio e nel lessico, influenzati dalla vulgata mediatica e perfino dal gergo del senso comune.
Mentre li credevamo archiviati grazie a un lungo lavoro critico, tornano in auge formule e vocaboli legati a schemi interpretativi, anche spontanei, del tutto infondati. Non potendo riportarne l’intero catalogo, ci soffermiamo solo su alcuni.
Razza-razziale
Il razzismo è anzitutto un’ideologia, quindi una semantica: è costituito da parole, nozioni, concetti. Sicché l’analisi critica, la decostruzione e la denuncia del sistema-razzismo hanno obbligatoriamente un versante lessicale e semantico. Così se tu parli di discriminazione razziale, invece che razzista, puoi finire inconsapevolmente per legittimare la nozione e il paradigma di “razza”, suggerendo l’idea che a essere discriminate siano persone differenti per “razza”.
A incorrere in sbavature lessicali di tal genere possono essere anche locutori che si reputano antirazzisti/e, per di più colti/e; perfino istituzioni e associazioni deputate a contrastare il razzismo o addirittura a promuovere il rispetto di codici deontologici nel campo dell’informazione. Questo appare oggi tanto più paradossale se si pensa che pure in Italia, per iniziativa di un gruppo di antropologi-biologi, poi anche di antropologi culturali, è in corso una campagna per la cancellazione di “razza” dalla Costituzione.
Sebbene la nozione di “razza” sia stata espunta anche dal campo della biologia e della genetica della popolazioni, il suo utilizzo perdura anche in ambienti intellettuali e/o perfino “di sinistra” o continua a essere utilizzata secondo un uso banale e pericoloso che non può essere ignorato.
Etnia-etnico-etnicità
Come osserva l’antropologo Mondher Kilani, co-autore, insieme con René Gallissot e Annamaria Rivera, del saggio collettaneo L’imbroglio etnico, in quattordici parole-chiave (Dedalo, Bari 2012), l’aggettivo “etnico” suona sinistramente in espressioni quali “pulizia etnica”, “guerra etnica”, “odio etnico”. Inoltre, sia il senso comune che una parte di media e d’intellettuali tendono a considerare i cosiddetti “gruppi etnici” come entità quasi-naturali, connotate da ancestralità e primordiali legami di sangue e di conseguenza ad associarli a una diversità insuperabile. Di conseguenza “etnia” è spesso usata come un eufemismo di “razza”.
Frequente, anche in ambienti antirazzisti, è l’abuso di locuzioni quali “società multietnica”, “quartiere multietnico”, “corteo multietnico”… Sebbene siano usate talvolta in senso intenzionalmente positivo, formule di tal genere rinviano pur sempre a “etnia”: una nozione assai controversa, poiché basata sull’idea che esistano gruppi umani fondati su qualche principio ancestrale, su qualche identità originaria.
In realtà, nei contesti discorsivi mainstream, “etnici” sono sempre gli altri e le altre, i gruppi considerati particolari e differenti dalla società maggioritaria, ritenuta normale, generale, universale. Non è raro che “etnia” sia adoperata, in riferimento alle minoranze, ai rom, alle popolazioni di origine immigrata, come sostituto eufemistico di “razza”. Tanto che perfino nella cronaca della migliore stampa italiana è possibile imbattersi in locuzioni assurde e paradossali quali individui di etnia latinoamericana o addirittura di etnia cinese</em>; mentre mai ci è capitato di leggere di etnia europea o di etnia nordamericana.
In ogni caso, che sia per pregiudizio o per intento discriminatorio, per incompetenza o sciatteria, quando si tratta di qualificare cittadine/i di origine immigrata o appartenenti a minoranze sembra non valere il criterio neutro, o almeno simmetrico, della nazionalità.
Guerra tra poveri
È una delle retoriche più abusate, anche a sinistra, perfino in quella che si pretende colta. Di solito la si adopera in riferimento a due categorie di presunti belligeranti, immaginati come simmetrici, una delle quali è costituita da qualche collettività di migranti o di rom.
L’abuso di questa formula è indizio di un tabù o di una rimozione: si ha difficoltà ad ammettere che il razzismo possa allignare tra le classi subalterne, così da scatenare guerre contro i più poveri. Guerre asimmetriche, non solo perché di solito gli aggressori sono i nazionali, ma anche perché essi, per quanto disagiati possano essere, godono pur sempre del piccolo privilegio della cittadinanza italiana, che conferisce loro qualche diritto in più.
Un tale razzismo – che nella letteratura sociologica è detto “ordinario” o “dei piccoli bianchi” – spesso attecchisce tra coloro che patiscono qualche forma di disagio sociale e/o di marginalità anche spaziale. Favorito da dissennate politiche abitative, urbanistiche, più in generale sociali, spesso è anche fomentato ad arte dagli imprenditori politici del razzismo.
A volte, la formula passe-partout di “guerra tra poveri” non ha la minima base che ne giustifichi l’utilizzo, come avvenne nel noto caso dei ripetuti assalti armati al Centro per rifugiati di Viale Morandi, nel sobborgo romano di Tor Sapienza, nel lontano novembre del 2014. Il tentato pogrom contro adolescenti fuggiti da guerre e altre catastrofi fu spacciato come espressione spontanea della rabbia dei residenti esasperati dal “degrado”, quindi come un episodio della “guerra tra poveri”. In realtà, a dirigere gli assalti, cui partecipò un numero di residenti limitato, fu una squadraccia di “fascisti del Terzo Millennio”, a loro volta probabili esecutori, di mandanti legati a Mafia Capitale.
Poco tempo prima, di “guerra tra poveri” si era parlato, anche a sinistra, a proposito di un crimine particolarmente odioso, accaduto il 18 settembre 2014 alla Marranella, quartiere romano del Pigneto-Tor Pignattara: il massacro a calci e pugni di Muhammad Shahzad Khan, un pakistano di ventotto anni, mite e sventurato, per mano di un bullo di quartiere, un diciassettenne romano, istigato dal padre fascista.
Numerosi sono i precedenti di questo pigro schema interpretativo. Che di volta in volta è stato applicato ai pogrom contro i rom di Scampia (2000) e di Ponticelli (2008), istigati dalla camorra e da interessi speculativi; alla strage di camorra di Castelvolturno (2008); ai gravi fatti di Rosarno (2010), anch’essi fomentati da interessi mafioso-padronali.
Tutto ciò è indizio di un’avversione crescente per le interpretazioni complesse, favorita dal chiacchiericcio social-mediale, che a sua volta contribuisce al crescente conformismo che caratterizza il dibattito pubblico. Il razzismo, si sa, poggia su una montagna costituita anche da cattive parole. Decostruirle e abbandonarle non è fare esercizio astratto di “politicamente corretto” (sebbene quest’ultimo non sia poi così disprezzabile come è di gran moda da tempo far credere), bensì intaccarne il sistema ideologico e semantico.
fonte: https://comune-info.net/parlar-male-anche-a-sinistra/