La parola specismo si basa sulla nozione di specie, per analogia con le parole razzismo e sessismo: è il sistema di dominio, oggettivazione, appropriazione degli animali, fondato sul criterio, rigido e arbitrario, dell’appartenenza di specie degli individui.
Un tale sistema è sostenuto e giustificato dal dogma della Natura e dall’ideologia della centralità e della superiorità della specie umana su tutte le altre. Il pensiero occidentale moderno, sebbene contempli forme di continuità nella sfera materiale – evolutiva, biologica, ma anche genetica – ha soprattutto separato culturalmente e moralmente non solo il corpo dallo spirito, il soma dalla psiche, ma anche gli umani dai non-umani.
Di conseguenza ha spesso operato una netta dissociazione tra i soggetti umani e gli oggetti animali, reificando questi ultimi e negando non solo il fatto che essi abbiano un “mondo”, delle culture, una “storia”, ma anche la loro qualità di soggetti dalla vita sensibile, emotiva e cognitiva.
Le credenze, i pregiudizi e gli stereotipi, utilizzati per legittimare l’indifferenza verso le sofferenze inflitte agli animali o per giustificare la crudeltà abituale nei loro confronti, sono strettamente correlate alle forme del pensiero razzista e sessista.
Il movimento antispecista (o movimento per la liberazione animale) afferma che l’attribuzione degli individui a delle categorie biologiche (di specie, ma anche di “razza”, di sesso, di età) non è pertinente per decidere quale considerazione accordare ai loro bisogni, desideri, diritti; e serve semplicemente quale pretesto ideologico per la discriminazione, fino alla reificazione. A proposito di quest’ultima basta citare il fatto che, fino al 2015, per il Codice civile francese lo status giuridico dell’animale era quello di bene mobile: solo successivamente diverrà “un essere vivente dotato di sensibilità.
Uno dei rischi più seri è, a mio avviso, l’infiltrazione nel movimento antispecista o l’appropriazione della “questione animale” da parte di correnti di destra o di estrema destra. Perciò è necessario anche – e non solo per ragioni tattiche – articolare l’antispecismo con l’antisessismo e l’antirazzismo. Gli stereotipi utilizzati per legittimare l’indifferenza verso le sofferenze inflitte agli animali o giustificare l’abituale crudeltà nei loro confronti sono strettamente correlati ai modi di pensiero razzista e sessista.
Anche parte della sinistra politica corre tali rischi, incapace, com’è spesso, di comprendere il valore strategico dell’antispecismo. Per una parte del pensiero di sinistra la “questione animale” è un lusso da privilegiati, che sarebbero indifferenti alle questioni di classe, di giustizia sociale e di uguaglianza. Tuttavia, benché la tradizione di sinistra abbia non poche volte marcato la propria distanza in rapporto alla “questione animale”, vi sono delle rilevanti eccezioni storiche cui si potrebbe fare riferimento: da Rosa Luxemburg a Horkheimer e Adorno…
Quanto al movimento femminista, esso ha sicuramente sviluppato una profonda riflessione su ciò che si proclama, si propone e s’impone come neutro universale. Ma, fino a oggi, almeno nelle varianti italiana e francese, non è stato capace di riflettere abbastanza sul “ciclo maledetto dell’esclusione degli altri”, inaugurato dallo specismo (l’espressione è di Claude Lévi-Strauss).
Infatti, affermare che gli animali non sono delle cose, dei beni o delle merci, bensì soggetti di vita sensibile, singolare, affettiva e cognitiva (e agire di conseguenza) significa andare nel senso di un progetto economico, sociale e culturale che ha come fondamento la redistribuzione delle risorse su scala mondiale, l’uguaglianza economica e sociale, in definitiva il superamento del sistema capitalistico. Tant’è vero che, in particolare nella sua fase neo-liberale e mondializzata, il capitalismo si basa sullo sfruttamento intensivo dei non-umani così come degli umani.
Anche gli ecologisti hanno tardato non solo a preoccuparsi del benessere animale, ma anche a considerare gli enormi danni ambientali provocati dall’industria della carne. Infatti, ogni anno nel mondo vengono abbattuti almeno 142 miliardi di animali. Prima di essere uccisi, spesso in maniera dolorosa e orribile, gli animali di allevamento non hanno alcuna esistenza. I suini vengono imprigionati in gabbie che comprimono i loro corpi e impediscono loro ogni movimento; i vitelli sono strappati alle loro madri appena nati; i pulcini maschi vengono schiacciati vivi…
Questa industria è la prima responsabile dei processi di deforestazione, di consumo e inquinamento delle acque, di produzione di gas a effetto-serra, di utilizzazione planetaria di terre, di consumo di prodotti agricoli; in più, è una delle prime per ciò che riguarda il consumo di energia. Tutto ciò a vantaggio quasi esclusivo dei paesi occidentali ricchi e industrializzati, i quali sono i maggiori consumatori di carne in rapporto agli abitanti.
Insomma, oggi abbiamo tutti gli elementi per affermare che l’alimentazione carnea provoca un autentico disastro ecologico (ci vogliono diecimila litri di acqua per un chilo di bovino) nonché una rilevante sotto-nutrizione umana: si potrebbero nutrire quattro miliardi di esseri umani in più se le produzioni vegetali destinate al bestiame fossero utilizzate direttamente per la loro alimentazione.
In realtà, gli allevamenti e i macelli industriali, con la loro catena di smontaggio dei corpi animali, restano gli esempi estremi di “fabbriche” tipicamente fordiste. Qui si uccide e si disseziona una vacca ogni minuto, un maiale ogni venti secondi e un pollo ogni due secondi. Ma i loro danni riguardano non solo le vite degli animali, ovviamente, e l’ambiente, ma anche gli operai che vi lavorano. In Francia, tra l’altro, si sono realizzate delle inchieste di campo sulle catene di macellazione, che descrivono l’inferno della condizione sia animale, sia operaia.
La razionalità tecnica dell’allevamento e della macellazione degli animali contiene in sé una logica che evoca quella che ha guidato le tecniche di concentramento e di sterminio. Seguendo la semantica dell’eufemismo omicida, lo sterminio programmato secondo una logica industriale rigorosa fu designato con l’espressione “dare una morte compassionevole” al fine di evitare “sofferenze inutili”. Così l’uccisione seriale di animali da macello nei mattatoi asettici e automatizzati, prescritta dalle leggi dei paesi occidentali “più avanzati” è nominata e giustificata come “macellazione umanitaria”.
L’antispecismo si oppone alla visione naturalistica degli esseri viventi e s’interessa non già a ciò che gli individui rappresentano, ma soprattutto a ciò che essi sentono e provano. Ciò che importa non è il logos, la razionalità o la capacità di astrazione, ma, in primo luogo, la semplice esistenza della sofferenza dell’animale, che è la prova della sua coscienza e della sua soggettività. La sensibilità e l’acutezza affettiva dei suini sono oggi conosciute come tra le più sviluppate. E tuttavia ciò non impedisce di ucciderne ogni anno almeno due miliardi, dopo averli sottomessi a condizioni di allevamento orribili.
È l’umano occidentale-moderno che ha inaugurato la retorica secondo la quale l’alterità non può essere definita se non attraverso un criterio privativo. L’animale non-umano sarebbe caratterizzato da ciò che gli manca: la ragione, l’anima, la coscienza, il linguaggio, la cultura…
Mai per la sua singolarità. A tal proposito, le scoperte numerose e innovatrici nel campo dell’etologia e della psicologia cognitiva ci hanno indotte/i ad abbandonare poco a poco i vecchi criteri privativi. Ciò malgrado, il pensiero dogmatico della supremazia assoluta degli esseri umani inventa sempre delle nuove differenze radicali, non fondate o perfino ridicole. Un tempo si diceva che l’uso di utensili era “proprio dell’Uomo”, finché non si è scoperto che talune specie di animali li utilizzano. Poi si è sostenuto che solo gli umani sono capaci di fabbricarli, quando, in realtà anche gli scimpanzè e altri animali ne sono capaci. Più tardi si è affermato che gli animali non hanno un linguaggio articolato. E invece si è potuto insegnare a certi primati il linguaggio gestuale dei sordo-muti umani, con la sintassi e altre regole.
Insomma, oggi abbiamo tutti gli elementi scientifici per affermare che gli animali sono degli esseri sensibili, in molti casi dotati di una coscienza, nel senso più forte del termine.
Alcuni antropologi, in primo luogo Claude Lévi-Strauss, hanno avanzato l’ipotesi che l’assoggettamento, la squalificazione e lo sfruttamento degli animali siano stati il modello primario che ha permesso la dominazione, la reificazione e la gerarchizzazione di talune categorie di esseri umani. Dal canto suo Theodor W. Adorno, in un memorabile aforisma di Minima Moralia, scrive che l’eventualità del pogrom si decide “nel momento in cui lo sguardo di un animale ferito a morte incontra un uomo. L’ostinazione con la quale egli respinge il suo sguardo –‘non è che un animale’ riappare irresistibilmente nelle crudeltà commesse su degli umani, i cui autori devono costantemente convincersi che ‘non è che un animale’”.