È arduo scrivere di “assi culturali del Sessantotto” nel caso di un movimento dal carattere alquanto magmatico e variegato; pur se, di certo, transnazionale, caratterizzato da contenuti e rivendicazioni, stili e tendenze analoghi, da una parte all’altra del mondo. Basta citare l’antifascismo e l’internazionalismo, lo spirito cosmopolita e libertario, nonché il gusto del sovvertimento ironico: quest’ultimo, eredità del situazionismo, implicita o forse inconsapevole.
Per questa ragione, piuttosto che azzardarmi a discettare dei suoi assi culturali, preferisco partire dalla mia esperienza, quella di un Sessantotto pendolare, svolto nell’Università di Bari, cui ero iscritta, e nel contempo a Taranto (la mia città natale, ove a quel tempo risiedevo). Qui, non essendovi allora un’università, il movimento si sviluppò nelle scuole medie superiori: la parte più attiva era costituita, non per caso, dagli studenti di un istituto tecnico-industriale, in gran parte figli di proletari.
Oggi mi chiedo come potessi sostenere un attivismo così frenetico, in due città diverse; e con il corollario di denunce, attacchi della polizia, notti in Questura, scioperi della fame per protesta contro la repressione… Una delle risposte possibili è che il Sessantotto andò ben oltre la politica intesa quale sfera separata, per caratterizzarsi come attivismo collettivo permanente, che includeva la sfera quotidiana ed esistenziale, nonché la solidarietà reciproca e la convivialità. Fu anche grazie a queste due pratiche che io, da pendolare dotata di scarse risorse economiche, potevo procurarmi il pane quotidiano quand’ero a Bari.
Com’è ben risaputo, il Sessantotto fu il frutto di una lunga gestazione, sul versante giovanile, culturale e contro-culturale, nonché su quello delle lotte della classe operaia. Nella variante italiana, rappresentò l’apice di un processo di radicalizzazione politica che esordì almeno nel 1960, con l’ampia protesta antifascista dei “ragazzi con le magliette a strisce”, seguita due anni dopo dalla rivolta operaia di piazza Statuto, a Torino. Non fosse altro che per questi antecedenti, esso non è riducibile a sola rivoluzione dei costumi, della mentalità, dello stile, del linguaggio.
Meno che mai è sostenibile la tesi dei sessantottini “figli di papà”, formulata da Pasolini in versi scritti dopo gli scontri di Valle Giulia e divenuta un luogo comune tuttora in voga. In realtà, in Italia (come in Francia e altrove) buona parte degli studenti e delle studentesse che “fecero” il Sessantotto apparteneva a famiglie operaie o piccolo-borghesi: era la prima generazione ad aver accesso all’università o addirittura alla scuola media superiore.
Quel cliché si diffuse quasi ovunque, se è vero che, a proposito dell’ampia e dura rivolta statunitense contro la guerra in Vietnam, il giornalista e scrittore Marc Kurlansky dové puntualizzare, nel suo libro sul Sessantotto, che non si trattava certo “di ragazzi viziati e privilegiati che cercavano di evitare il servizio militare, come si tentava di etichettare chi partecipava al movimento” (1968. L’anno che ha fatto saltare il mondo, Mondadori, Milano 2004: 24; ed. or. 1968).
Ho fatto cenno alla controcultura poiché, anche nel caso italiano, essa contribuì in qualche misura alla gestazione del movimento o almeno alla formazione intellettuale di non poche/i attiviste/i. Lo affermo anche per esperienza personale. Ben prima del Sessantotto − quando facevo parte di uno dei tanti comitati contro la guerra in Vietnam −, fra le mie letture v’erano Allen Ginsberg e altri poeti della beat generation, alcuni dei quali sarebbero scomparsi o usciti di scena prima o all’esordio di quell’anno fatale.
Allorché, nel 1965, la Mondadori pubblicò la raccolta di poesie di Ginsberg, Jukebox all’idrogeno, mi precipitai a comprarla. Non ero certo l’unica ammiratrice del poeta: risoluto oppositore della guerra in Vietnam e difensore dei diritti dei gay, egli era un idolo da una parte all’altra del mondo, dove veniva osannato da giovani libertari e libertarie, ma anche fermato e poi respinto dalle polizie di non pochi Paesi.
Partito per Cuba agli inizi del 1965, con molto entusiasmo e aspettative, ne fu espulso verso la Cecoslovacchia per aver pubblicamente denunciato la persecuzione degli omosessuali. Da qui si recò a Mosca e a Varsavia, per poi tornare a Praga. In questa città, il 1° maggio di quello stesso anno, fu accolto con tutti gli onori da studenti e studentesse universitari/e e partecipò al Festival di maggio: volutamente alternativo alla liturgia ufficiale del regime e costituito da una sfilata nonché da un insieme di musica, performance, letture. Qui Ginsberg fu incoronato Re di maggio e, durante il discorso di ringraziamento, dedicò la sua corona a Franz Kafka. Poco dopo fu arrestato dalla polizia, tenuto in isolamento, infine espulso dal Paese. Non gli andò molto meglio allorché ritornò negli Stati Uniti: come ricorda il già citato Kurlansky (2004: 52), fu subito inserito dall’fbi in una lista di persone “pericolose per la sicurezza”.
Mi sono soffermata su Allen Ginsberg per sottolineare quanto fossero meritate la sua notorietà e l’ammirazione da parte della “generazione ribelle”: il suo impegno politico fu limpido, costante, coerente, più che nel caso di Jack Kerouac e di altri della beat generation.
Poco più tardi avrei scoperto (al pari di tante/i) le opere della Teoria critica (Kritische Theorie) francofortese, da Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno (Einaudi, 1966), a Eros e civiltà e L’uomo a una dimensione di Marcuse (anch’essi pubblicati da Einaudi, rispettivamente nel 1964 e nel 1967). Per non dire di Minima Moralia dello stesso Adorno (comparso in edizione italiana già nel 1954), che tuttora resta il mio “libro da comodino”: una sorta di bibbia laica di cui sono solita rileggere qualche aforisma prima di addormentarmi.
Per parlare di pubblicazioni meno impegnative, ricordo che nel 1965 uscì Linus, del quale sarei diventata lettrice fedele e appassionata, al pari di un buon numero fra coloro che avrebbero “fatto” il Sessantotto: il movimento amò non poco le bandes dessinées, non solo in Francia, pure in Italia e altrove.
Conviene accennare anche al ruolo che ebbe la musica nella formazione mia e di tanti/e sessantottini/e: dal rock alla canzone folk statunitense, dai cantautori italiani impegnati fino al canto sociale, tradizionale o “rivisitato”. A tal proposito basta citare l’eredità di Cantacronache, nato a Torino nel 1957 e finito nel 1963: oltre a sviluppare la ricerca etno-musicologica, produsse quelle canzoni “politiche” che avremmo cantato nel corso del Sessantotto e ben oltre. Sulla stessa scia nacque poi a Milano, nel 1962, il Nuovo Canzoniere Italiano, cui si deve la riscoperta, la riproposta e la diffusione di molti canti tradizionali, di lavoro e di protesta. Tutto ciò ha rappresentato per me (e non solo) una lunga passione, talché tuttora faccio parte del Comitato scientifico dell’Istituto Ernesto de Martino (“per la conoscenza critica e la presenza alternativa del mondo popolare e proletario”).
Com’è ben noto, nella fase di gestazione del movimento, un ruolo assai importante ebbero anche riviste alternative quali Quaderni Rossi (1961-’66), Quaderni Piacentini (1962-1984), Nuovo Impegno (1965-1977), nonché Quindici, del Gruppo ’63, che, sebbene di vita breve (1967-’69), riuscì ad avere una redazione anche a Taranto.
Per ciò che mi riguarda, tra quelle che leggevo abitualmente, dové essere soprattutto La Sinistra a contribuire alla mia formazione politica terzomondista, guevarista, libertaria. Sicché quando fu annunciata l’invasione di Praga da parte dei carri armati sovietici (nella notte tra il 20 e il 21 agosto 1968), io e altre/i del primo nucleo del movimento studentesco tarantino abbandonammo definitivamente la sede politica che eravamo soliti frequentare: quella dello psiup, partito che appoggiò l’invasione.
Mi sono chiesta più volte, nel corso del tempo, come facessi, con le scarse risorse di cui disponevo, ad acquistare libri, riviste, giornali. Una delle risposte l’ho trovata nel saggio A Sud del Sessantotto. Cronache della “contestazione” a Taranto,1968-1978 (Samarcanda Editrice, 1988) a opera di Roberto Nistri, storico e filosofo. Egli scrive che il gruppo di giovani (lui stesso ne faceva parte, così come mia sorella Paola, morta prematuramente) che avrebbero costituito il primo nucleo del movimento studentesco tarantino frequentava assiduamente l’edicola di un noto psiuppino, per leggere gratuitamente Quindici, La Sinistra, Linus e altre riviste.
Un ruolo importante rispetto alla produzione e formazione culturale di quegli anni ebbero tre case editrici baresi. Dagli esordi del 1968 (e fino al 1987) la Dedalo pubblicò l’edizione italiana della Monthly Review, la rivista internazionale, d’ispirazione marxista, fondata nel 1948 da Paul M. Sweezy e Paul A. Baran. Più tardi, nel 1971, la medesima casa editrice avrebbe inaugurato una collana ch’era la versione italiana della Monthly Review Press. Nello stesso 1968 la De Donato dava alle stampe il volume Dutschke a Praga, che raccoglieva saggi e interviste di Rudi il Rosso e, ad aprile di quell’anno, la Laterza pubblicava Documenti della rivolta universitaria (“a cura del Movimento studentesco”), volume che raccoglieva materiali scaturiti dalle occupazioni universitarie di varie città, ma non di Bari.
Com’è ovvio, non fu solo la formazione politico-intellettuale, quella da autodidatta, a decidere del mio impegno prima, durante e dopo il Sessantotto. Per ciò che riguarda, in particolare, il mio duplice attivismo sessantottino, un ruolo di rilievo ebbe anche la mia condizione sociale liminale e l’esperienza diretta di cosa fosse la “scuola di classe”, oltre che lo spirito ribelle, anticonformista, femminista.
Quanto al movimento neo-femminista (come sarebbe corretto nominarlo), alla sua nascita contribuirono, certo, anche i contenuti dirompenti espressi dal Sessantotto, ma pure le sue contraddizioni: esso sembrava promettere l’uguaglianza tra i generi e la liberazione dal patriarcato e dal sessismo, ma nelle pratiche e nelle relazioni quotidiane questi valori furono spesso traditi. Tuttavia, non si può affermare che il neo-femminismo sia stato una filiazione diretta dell’insorgenza studentesca; se mai, figlio dello stesso contesto storico e della medesima temperie. Basta dire che demau (Demistificazione Autoritarismo), il primo collettivo femminista, nacque a Milano nel 1966.
Nondimeno, l’attivismo sessantottino nonché la militanza nei gruppi della Nuova sinistra furono, in positivo, ma anche in negativo, tra le spinte che contribuirono alla nascita del femminismo quale movimento di massa (ciò accadde tra il 1973 e il 1975). E a proposito della Nuova sinistra: essa non sempre riuscì a sottrarsi a ideologismi e dogmatismi, per non dire che spesso le donne vi erano relegate nel ruolo di “angeli del ciclostile”, come si disse allora. Non per caso, uno degli slogan femministi più gridati sarebbe diventato: “Compagni nelle piazze, fascisti nella vita/ con questa ambiguità facciamola finita”.
In realtà, inizialmente le tematiche femministe trovarono scarsa accoglienza (per non dire ostilità) presso la vecchia e la Nuova sinistra. Una delle ragioni teorico-politiche è data, a mio parere, dal fatto che la lettura del marxismo in chiave tendenzialmente economicistica inducesse a considerare come irrilevante o secondario il tema della liberazione delle donne. Ma v’erano moventi ben più ignobili: quelli che spinsero la parte maschile di taluni gruppi “extraparlamentari” a mobilitare i propri servizi d’ordine contro il movimento delle donne.
Quanto a me, fu anche in virtù dell’intensa esperienza nel corso del 1968 che più tardi partecipai attivamente al movimento femminista; e ciò mentre, nel contempo, ero impegnata − non già da “angelo del ciclostile” − in un gruppo della Nuova sinistra, ben radicato nell’intero contesto pugliese e non ostile al femminismo.
Ricordo, a tal proposito, che in Puglia, verso la metà degli anni Settanta, in tutte le città capoluogo e perfino in piccoli centri, sorsero collettivi femministi, che poi avrebbero costituito un coordinamento regionale. A Bari io e altre fondammo il Collettivo “Donne in lotta”, che più tardi sarebbe entrato a far parte anche di una rete nazionale di collettivi consimili. A contraddistinguerla erano non solo la rottura con l’emancipazionismo alla maniera dell’Udi nonché la presa di distanza dal “pensiero della differenza”, ma anche il tentativo di coniugare il femminismo col marxismo, con la pretesa di superarne i limiti: analogamente alle femministe materialiste francesi, quali le sociologhe Christine Delphy e Colette Guillaumin, che si richiamavano, a loro volta, a Simone de Beauvoir.
A tal proposito ricordo en passant che il suo decisivo Il secondo sesso, comparso per la prima volta in Francia nel 1949, in Italia sarà tradotto e pubblicato (dal Saggiatore) ben dodici anni più tardi, nel 1961, per essere poi riscoperto dalle femministe degli anni Settanta.
Al pari del Sessantotto, il neo-femminismo italiano fu in qualche misura influenzato anche dalla cultura radical statunitense. Basta dire che la pratica dell’autocoscienza (consciusness-raising), inaugurata giusto nel 1968 dalle femministe del New York Radical Women, fu poi “importata” in Italia da Serena Castaldi, che faceva parte del collettivo Anabasi. Si considerino, inoltre, le suggestioni provenienti non solo dai movimenti anticolonialisti, ma pure dal Black Power: lo stesso “Donna è bello”, slogan del movimento femminista anche italiano, sembra mutuato da”Black is beautiful”.
Per non dire dell’importanza che ebbero saggi quali La mistica della femminilità di Betty Friedan, comparso negli Stati Uniti nel 1963 e tradotto in italiano appena un anno dopo; nonché La dialettica dei sessi di Shulamith Firestone, attivista del già citato New York Radical Women, pubblicato negli Stati Uniti nel 1970 (con il sottotitolo di The Case for Feminist Revolution) e in Italia l’anno seguente (con il sottotitolo di Autoritarismo maschile e società tardo-capitalistica).
Un’altra rapida notazione: a ripensarci ora, retrospettivamente, anche il metodo dell’inchiesta e della con-ricerca praticato nel corso degli anni Sessanta, poi fatto proprio da alcuni gruppi della Nuova sinistra (compreso quello cui appartenevo), dové in qualche misura influenzare la mia scelta dell’antropologia: che avrei insegnato per alcuni decenni in quella stessa Facoltà di Lettere e Filosofia che era stata teatro dell’insorgenza sessantottina.
Infine: oso pensare che, pur in un tempo politico così nefasto, il nostro impegno abbia lasciato delle tracce. Ne ritrovo alcune nel movimento femminista di Non una di meno. E penso che uno dei suoi meriti, fra i tanti, sia quello di aver saputo integrare generazioni diverse di femministe nonché l’attivismo lgbtq. Un altro dei suoi pregi − una novità rispetto al “nostro” femminismo − è d’aver tematizzato l’intersezionalità fra sessismo, razzismo e specismo.
fonte: https://comune-info.net/memorie-ribelli-le-radici-e-le-ali/