Il mito nefasto dell’identità originaria

Il 13 settembre 2021, il G20 Interfaith Forum, ovvero il forum inter-religioso mondiale, riunito a Bologna, ha finalmente lanciato un appello onde abolire la parola “razza” dalle Costituzioni. Com’è noto, la Francia lo fece già tre anni fa, abrogando non solo quel vocabolo infondato e malefico, ma anche il riferimento alle differenze di genere. E sei mesi fa la Germania ha riformulato l’articolo 3 della sua Costituzione in tal modo: “Nessuno può essere danneggiato o favorito (…) per motivi razzisti”, in luogo di “per la sua razza”, com’era in precedenza.

Quella del G20 Interfaith Forum non è la prima iniziativa di tal genere: è da non pochi anni che nella società civile, anche italiana, ci si organizza per rivendicare l’abrogazione di “razza”.

Un altro termine che andrebbe abbandonato, a mio parere, è quello di etnia, che, invece, pur avendo, in realtà, una valenza discriminatoria, continua a ottenere una straordinaria fortuna, perfino in ambienti intellettuali. Fra i tanti esempi, basta citare il titolo di una tesi di laurea in sociologia: La discriminazione delle etnie Rom. Profili socio-giuridici. Definire “etnie” la minoranza costituita da rom, sinti e caminanti – in Italia, la più numerosa nonché la più discriminata, emarginata, disprezzata- significa, in realtà, contribuire, per l’appunto, alla sua discriminazione, emarginazione, umiliazione.     

Eppure, a decostruire questo pseudo-concetto e a mostrarne la valenza e il significato arbitrari e discriminatori sono comparsi, nel corso del tempo, anche in Italia, alcuni articoli e saggi. Il volume più ampio e più noto, L’imbroglio etnico, strutturato per parole-chiave, del quale sono stata l’ispiratrice nonché coautrice insieme con lo storico René Gallissot e l’antropologo Mondher Kilani, ha conosciuto ben tre edizioni: la prima, in francese e in dieci parole-chiave, fu pubblicata nel 2000; la seconda, comparsa nel 2001 in italiano e in una versione più ampia (in quattordici parole-chiave), ha conosciuto ben tre ristampe, l’ultima nel 2012.

Un tale lavorio intellettuale sembra non aver suscitato alcun dubbio circa i significati e l’opportunità dell’utilizzo di “etnia”. È per questa ragione che propongo qui la sintesi di una delle quattordici parti che compongono il volume citato, tutte introdotte da parole-chiave: è quella, per l’appunto, su Etnia-etnicità.   

Nel parlare comune, nel linguaggio mediatico e talvolta perfino in quello scientifico, “etnia” ed “etnico” sono adoperati per designare sinteticamente, con un’unica parola, gruppi di popolazione immigrata e minoranze che si distinguerebbero dalle maggioranze per diversità di costumi e/o di lingua, per le loro culture e modi di vita. In realtà, chi abusa del vocabolario etnico intende alludere a qualche forma di differenza fondamentale e irriducibile: che sia quella data dai caratteri somatici, oppure da una «essenza» culturale premoderna o addirittura da qualche fondamento ancestrale. V’è anche chi ritiene che «etnia» sia il termine più appropriato per nominare le differenze senza ricorrere al vocabolario detto razziale.

Vi sono perfino alcuni studiosi i quali sostengono che il termine di “etnia” avrebbe addirittura inaugurato una valutazione delle diverse parti costitutive dell’umanità più razionale e giusta, più neutra e a-valutativa di altri. In realtà, il vocabolo cela sovente la convinzione o il pregiudizio che le differenze fra culture e modi di vita si fondino su qualche principio ancestrale, su qualche identità originaria. E spesso è adoperato come sinonimo eufemistico di “razza”.

In ogni caso, l’uso del termine e della nozione riflette la divisione netta istituita fra la società cui appartiene l’osservatore (ritenuta normale, generale e universale) e altri gruppi, minoranze, culture: quasi sempre «etnici» sono gli altri, che, discostandosi dalla norma della società dominante e della cultura maggioritaria, sono percepiti come differenti, particolari, marginali, periferici, arcaici, attardati, in via d’estinzione o “soltanto” non conformi alla norma nazionale.

Un impiego del tutto peculiare del vocabolo, per auto-attribuzione («etnici siamo noi»), da parte di settori della società dominante, è quello del Front national in Francia e della Lega in Italia, i quali un tempo parlavano rispettivamente di «etnia francese» e di «etnia padana».   

L’etnicizzazione è, in realtà, un processo non tanto di riconoscimento o d’invenzione di differenze storiche e culturali, quanto, piuttosto, di classificazione surrettizia, potremmo dire, di gerarchie sociali, economiche, politiche. Etnicizzando dei gruppi sociali, infatti, si tende a mascherare la loro posizione di subordinazione o emarginazione rispetto alla società globale.

La cronaca della guerra fratricida nella ex Jugoslavia ha rappresentato il trionfo del modello e delle designazioni “etniche”, che in tal modo si sono affermati come un indiscutibile dato di fatto e si sono definitivamente consolidati nel linguaggio corrente. Il che ha concorso non poco alla costruzione delle ideologie che hanno sorretto e mascherato le ragioni della sanguinosa guerra civile, col suo orrendo corredo di reciproche «pulizie etniche» (nonché dell’ideologia che è servita a dissimulare gli scopi della guerra «umanitaria» della Nato nei Balcani); e ha condotto all’artificiosa separazione di popolazioni che avevano per lungo tempo convissuto e condiviso territorio, lingua, costumi, abitudini, progetto e istituzioni politiche.

Proprio perché chi è rappresentato come l’Altro assoluto spesso si rivela assai simile al Noi, è percepito come una minaccia: è questo uno dei meccanismi che conducono alle «pulizie etniche».

In definitiva, la nefasta etnicizzazione di un tale conflitto, il ricorso a una strategia che infine condurrà alla secessione, incoraggiata e avallata dalle potenze europee, avevano come principale posta in gioco la redistribuzione del potere.

Anche il conflitto in Ruanda, culminato nel genocidio dei tutsi, è stato sottoposto a una lettura in chiave rigidamente etnicista, identitaria, tribalista, che ha lasciato completamente in ombra altre logiche, ben più determinanti, trascurando il carattere di conflitto economico, sociale e politico, anzitutto. In realtà, nonostante si sia espresso nella forma di una sanguinosa barbarie, quel conflitto è stato per molti versi di una «terrificante modernità», per dirla con lo storico Alessandro Triulzi. La politica di annientamento è stata, infatti, concepita, pianificata, portata a termine non già dai capi tribali dell’interno, ma dalle élites intellettuali urbane.

Pochi ricordano che a etnicizzare la classe aristocratica dei tutsi e quella degli agricoltori hutu furono i colonizzatori, tedeschi prima e belgi poi: gli individui maschi furono classificati e trattati come tutsi o hutu a seconda che possedessero più o meno di dieci capi di bestiame. L’interpretazione in chiave etnicista e il linguaggio che ne discende si sono generalizzati e affermati come un’ovvietà, che invece è opportuno indagare e sottoporre a critica.

Non per caso, a introdurre il termine e la nozione di etnia nella lingua francese fu Georges Vacher de Lapouge, ideologo razzista e sostenitore di programmi eugenetici volti a impedire la «mescolanza razziale». Dunque, sin dall’inizio l’”etnia” è connotata da un significato difettivo: è intesa come un raggruppamento di popolazione cui manca qualcosa di decisivo in rapporto alla società cui appartiene l’osservatore, cioè colui che ha il potere di nominare e definire gli altri. Insomma, questa nozione viene spesso intesa come somma di tratti negativi o comunque derivanti da inciviltà o arretratezza.

Il colonialismo, in particolare, ha prodotto classificazioni “etniche” basate sull’invenzione di etnonimi spesso del tutto arbitrari: sovente questi erano il risultato della trasposizione semantica, compiuta da etnologi e funzionari coloniali– di toponimi, di nomi che identificavano unità politiche, di appellativi che indicavano questo o quel gruppo di mestiere oppure di stereotipi con i quali un certo gruppo o popolazione era designato, spesso spregiativamente, dai gruppi vicini o dalle classi dominanti.

Così, nel corso del tempo, l’”etnia”, insieme con la tribù e con il lignaggio, finì per diventare l’oggetto-principe di quella scienza (talvolta pseudo-scienza) che si autonomizzò come etnologia. Oggi, per fortuna, a questo termine si preferisce di gran lunga quello di antropologia, la quale non poco ha contribuito a decostruire quello pseudo-concetto.

 

 

fonte: https://comune-info.net/quel-mito-nefasto-dellidentita-originaria/