Quando ho saputo del suicidio assistito di Lucio Magri, non è alla coppia André Gorz-Dorine Keir che ho pensato subito, ma a Romain Gary, il romanziere francese di famiglia ebrea e di origine lituana, non molto celebre in Italia, per quanto tradotto a sufficienza. L’analogia mi è venuta in mente non per qualche somiglianza fra le ragioni che li hanno spinti alla scelta irrevocabile (chi ha il diritto di congetturare?), bensì per la maniera elegante, accurata, stilizzata con cui entrambi hanno deciso di abbandonare il mondo o forse di abbandonare noi al mondo.
Gary lo fa all’età di 66 anni, quando è al culmine del successo, sopraggiunto nel corso di una vita tragica e avventurosa: l’infanzia miserabile nel ghetto di Wilno (oggi Vilnius) in Lituania, il precoce abbandono del padre, che poi egli scoprirà essere stato ucciso dai nazisti insieme a due figli, la fuga con la madre a Varsavia e da lì, a quattordici anni, verso la Francia. Poi una vita intensa, spesso mondana, segnata dalla costante pulsione a mescolare e imbrogliare carte e piste, personaggi e identità (se ne inventerà almeno cinque). Romanziere prolifico e poliglotta dai molteplici pseudonimi, vincitore di due premi Goncourt grazie a un imbroglio di nomi e identità, grande tombeur de femmes, anzi adoratore profondo delle donne, a cominciare dalla madre, amatissima e mitizzata, gollista convinto e coraggioso combattente per la Liberazione, come capitano delle Forze aeree francesi libere, diplomatico dalla carriera brillante, animalista appassionato, decide di darsi la morte con un colpo di pistola il 2 dicembre 1980, a Parigi, nel suo appartamento di Rue du Bac.
Dopo un pranzo al ristorante in compagnia di Claude Gallimard, torna a casa, chiude le tende della sua stanza, si toglie gli occhiali, ripiega con cura gli abiti su una sedia rimanendo in camicia, si poggia sull’orecchio un telo da bagno rosso e preme il grilletto. Non vuole che chi lo ritroverà sia impressionato dal sangue.
Sul tavolino, un messaggio indirizzato al suo editore: «Nessun rapporto con Jean Seberg. Quelli che amano i cuori infranti sono pregati d’indirizzarsi altrove (…). Perché allora? Forse la risposta va cercata nel titolo del mio libro autobiografico, La notte sarà calma, e nelle ultime parole del mio ultimo romanzo “poiché non si potrebbe dire meglio”: in fondo mi sono espresso pienamente».
Un anno prima, l’ex moglie Jean Seberg, l’attrice americana di ventiquattro anni più giovane di lui, dalla quale, dopo aver avuto un figlio, si era separato nel 1970 (ma aveva continuato a frequentarla e a proteggerla), era stata trovata morta di un’overdose di barbiturici in una Renault 5, parcheggiata nel sedicesimo arrondissement di Parigi. L’attrice di Buongiorno, tristezza (1958), regia di Otto Preminger, e di Fino all’ultimo respiro (1959), regia di Jean-Luc Godard, era stata militante per la liberazione degli afroamericani e sostenitrice delle Black Panters. In una conferenza-stampa dopo il ritrovamento del cadavere, Gary aveva attribuito la responsabilità della sua morte alla Fbi, che l’aveva perseguitata fino a renderla quasi folle.
“In fondo mi sono espresso pienamente”, avrebbe potuto dirlo anche Lucio Magri. Entrambi hanno percorso quasi lo stesso periodo storico, vivendolo intensamente da protagonisti, con un acuto senso di responsabilità verso il proprio tempo e l’attitudine a schierarsi dalla parte ritenuta giusta: la Resistenza e il gollismo, Gary; l’antifascismo e il comunismo, Magri. Entrambi con una vocazione “eretica”, come si dice banalmente, non conformista, che li spinge sì a schierarsi ma anche a dubitare, a cercare, a interrogarsi, ad approfondire. L’uno e l’altro spesso criticati per il cotè mondano del loro stile di vita, per lo spirito dandy, la consapevolezza della propria superiorità intellettuale, un certo narcisismo e il culto della seduzione – che nascondono in realtà una profonda inquietudine, se non disperazione.
Entrambi scelgono il suicidio lucidamente, lo preparano con accuratezza, vi si avviano con passo elegante e misurato. Non è freddezza, è invece quella meticolosità che serve a tenere a freno l’angoscia, è quella cura che vale a conservare fino all’ultimo la propria dignità, il rispetto di sé: a morire come si è vissuto. Una grande lezione di signoria sulla vita e sulla morte.
Gli spiriti meschini non sono in grado di comprenderla e rispettarla. Nel suicidio di Lucio Magri non vedono altro che l’esito della depressione, del fallimento politico, della rinuncia. E arrivano a trovare “volgare e urtante” la piccola cerimonia domestica dell’attesa della notizia del suo congedo dalla vita. Non sono in grado di coglierne il senso: cioè il rispetto dei suoi cari verso la maniera di morire scelta da Lucio.
Non è solo la meschinità d’animo a renderli irrispettosi. E’ anche la rimozione della prospettiva della vecchiaia e della decadenza. In un altro tempo e in un’altra società, i vecchi potevano contare, come tutti, su qualche rete densa di relazioni, amicizie, solidarietà: calde e quotidiane. La sinistra fino agli anni Settanta era anche questo, i gruppi della nuova sinistra erano altrettante comunità in cui si condivideva non solo la militanza, ma anche il tempo quotidiano. Non è più così: come ha scritto Alfonso M. Iacono, non abbiamo perso per le nostre idee, bensì per quel che siamo diventati. Date le condizioni presenti, la scelta di Lucio è stata realistica: in solitudine, non si può invecchiare degnamente come si è vissuto.
Fonte: il manifesto 13 dicembre 2011
fonte: https://comune-info.net/la-dignita-di-quellultimo-passo/