Non v’è giorno in cui il ministro dell’Interno, col consenso tacito o aperto dei suoi lacchè di governo, non ci riservi qualche perla razzista, secondo il consueto stile aggressivo, smodato, grevemente sarcastico. Salvo poi fare, rare volte, qualche piccolo, apparente passo indietro allorché l’abbia sparata troppo grossa perfino per i suoi docili alleati a cinque stelle.
Così è stato finora per l’affaire Riace, il cui epilogo, speriamo non definitivo, è costituito dall’esilio del coraggioso sindaco Mimmo Lucano. Il giudice del riesame ha sì revocato gli arresti domiciliari, ma infliggendogli una misura ancor peggiore: il divieto di dimora nel suo comune. Oltre tutto, tale divieto si accompagna con la misura opposta comminata alla sua compagna e collaboratrice, Lemlem Tesfahun: se dal 2 ottobre le era precluso di risiedere a Riace, oggi è costretta a farlo, con tanto di obbligo di firma. Più che ispirate da senso di giustizia, queste due ordinanze sembrano dettate da un sadico senso di vendetta.
Non abbastanza soddisfatto di magistrati compiacenti, Salvini ha deciso – date le “criticità” (così si scrive nella neolingua dei burocrati del Viminale, che è anche quella di massa) – la revoca totale dei finanziamenti e, cosa ancor più grave, si è spinto fino al punto d’ipotizzare la deportazione dei riacesi non-nazionali, onde distruggere letteralmente quel modello virtuoso: esaltato, com’è ben noto, perfino dal magazine statunitense Fortune, che nel 2016 aveva inserito il sindaco di Riace – unico italiano – fra le cinquanta personalità più influenti al mondo.
Più tardi, con una nota del Viminale, il ministro dell’Interno ha apparentemente corretto il tiro, precisando che non vi sarà “alcun trasferimento obbligatorio: i migranti si muoveranno solo su base volontaria”. Di fatto, però, se le persone beneficiarie di accoglienza decidessero di rimanere a Riace, uscirebbero definitivamente dal circuito di quella istituzionale. È la banalità del male, per dirla alla maniera di Hannah Arendt. Cui Mimmo Lucano, amareggiato ma per nulla domato dalle sue vicende giudiziarie, ha subito dato una risposta coraggiosa: ha ipotizzato la creazione di un nuovo Sprar, “autogestito e autosufficiente”.
Per comprendere fino a qual punto il razzismo sia elemento strutturale della politica e della propaganda fascio-stellate (del ministro dell’Interno in specie) basterebbe leggere il decreto-legge n. 113/2018 detto su “sicurezza e immigrazione”: già questo binomio rivela quale sia l’ideologia cui esso s’ispira, il che, ahinoi, non ha impedito al Presidente della Repubblica di contro-firmarlo e in cambio d’una sola modifica.
È un pacchetto che (per illustrarlo in modo sintetico e incompleto) restringe nettamente il sistema di accoglienza, mentre raddoppia il tempo della detenzione amministrativa (per eccellenza anti-costituzionale) nei Centri per il rimpatrio (gli ex Cpt, poi Cie). Abolisce, inoltre, l’istituto della protezione umanitaria e cancella il diritto al pubblico patrocinio per i richiedenti-asilo. Allunga fino a quattro anni (dai due attuali) i termini dell’istruttoria relativa all’acquisizione della cittadinanza e la rende perfino revocabile nei casi di persone ritenute un pericolo per lo Stato: con ciò distinguendo fra i veri cittadini, quelli “di stirpe”, e gli spuri, cioè d’origine straniera. Trasforma gli hotspot e gli hub, che dovrebbero essere luoghi di prima accoglienza, in “strutture detentive senza una specifica regolazione delle condizioni di trattenimento delle persone ivi ospitate”, ove potrebbero essere rinchiusi anche dei minori. Così scrive il Garante dei diritti delle persone detenute in un parere assai severo sull’intero decreto-legge, inviato alla Commissione Affari costituzionali del Senato. http://www.garantenazionaleprivatiliberta.it/gnpl/resources/cms/documents/17ebd9f9895605d7cdd5d2db12c79aa4.pdf
Oltre tutto, il decreto inasprisce il codice Rocco quanto alle occupazioni “abusive” d’immobili; incrementa il “Daspo urbano” e altri dispositivi repressivi; in luogo di una multa, prevede il carcere fino a quattro anni per chi blocchi o ingombri una strada, sia pure con un corteo o un sit-in; dota di Taser, “in via sperimentale”, perfino gli agenti di Polizia municipale. Con ciò riuscendo a superare in peggio finanche la legge Minniti del 18 aprile 2017 (“Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città”), anch’essa volta a sorvegliare e punire la marginalità sociale e le azioni di protesta.
Tuttavia, se v’è un atto che, solo in apparenza secondario, rivela, nella maniera più simbolica e al tempo stesso più netta, quale sia il modello autoritario ed eversivo, oltre che razzista, cui s’ispira il ministro dell’Interno, è l’annuncio della decisione d’inserire nel decreto-legge (già controfirmato da Mattarella, come si è detto) un emendamento che imponga la “chiusura entro le 21 dei negozietti etnici che la sera diventano ritrovo di ubriaconi, spacciatori, casinisti (…) gente che beve birra fino alle tre del mattino (…) pisciano, cagano, fan casino” (per quanto volgare, è d’obbligo citarlo alla lettera).
Tutto ciò e altro sono stati pronunciati, l’11 ottobre scorso, dalla terrazza del Viminale, e ripresi in video per una diretta Facebook, poi pubblicata sul profilo del ministro. Quasi si trattasse di una delle volgari performance che egli era solito recitare da questa o quella sede della Lega Nord: il che configura un disinvolto uso privatistico di un luogo e di un ruolo istituzionali. Tra l’altro, sarebbe interessante sapere se chi ha realizzato quelle riprese lo abbia fatto a spese dei contribuenti.
Già la formula “negozietti etnici” la dice lunga. Infatti, “etnici” sono sempre gli altri, quelli che non appartengono alla polis: gli individui, i gruppi e le culture che, reputati distanti dalla norma della società e della cultura maggioritarie, non hanno neppure il diritto simmetrico d’essere definiti in base alla loro nazionalità. Sulla bocca di Salvini, l’“etnia” è, dunque, una sorta di tara ereditaria al pari della “razza”, di cui, infatti, è spesso adoperata come eufemismo.
Un ministro che ritiene si possano emanare norme e leggi basate sulla discriminazione “etnica”, in sostanza razzista; che, rinverdendo tradizioni nefaste, lancia i suoi proclami scurrili da balconi o terrazze di sedi delle massime istituzioni, è uno che ha già varcato la soglia della svolta autoritaria per avvicinarsi pericolosamente a quella fascista: l’obbligo per i soli “negozietti etnici” della chiusura entro le 21 evoca pericolosamente il ventennio fascista e la chiusura forzosa degli esercizi commerciali “ebraici”. (19 ottobre 2018)