Quella dei controlli d’identità au faciès, come si dice nell’Esagono, cioè secondo il “colore”, le sembianze, l’aspetto esteriore, il modo di abbigliarsi, l’origine nazionale o la fede religiosa presunte, è una prassi poliziesca francese (e non solo) così consolidata, abituale, sistematica da reggere a condanne di tribunali, mobilitazioni della società civile, richiami di organismi internazionali, rapporti e inchieste, anche della stessa Unione europea. Sicché non è stata neppure scalfita dal fatto che il 9 novembre 2016 la Corte di Cassazione francese abbia condannato definitivamente lo Stato per questa pratica discriminatoria.
Ed è di un controllo au faciès, particolarmente brutale, che il 2 febbraio scorso è stato vittima Théo, un ventiduenne di Aulnay-sous-Bois, comune del dipartimento di Seine-Saint-Denis (regione Île-de-France), a pochi chilometri da Parigi. I quattro agenti che lo fermano sottopongono il giovane a un pestaggio scandito da insulti razzisti, durante il quale uno di loro arriva a sodomizzarlo con un manganello: provocandogli lesioni così gravi da esigere un intervento chirurgico d’urgenza. A riprova dei fatti c’è un video presto reso pubblico: è quello delle telecamere di sorveglianza, di fronte alle quali Théo si era volutamente spostato non appena fermato dagli agenti. Pur incriminati (le prove sono schiaccianti), uno per stupro, tutti per violenze di gruppo, i poliziotti restano per ora a piede libero, sospesi temporaneamente dal servizio, ma non dallo stipendio.
Théo non è la prima vittima di una tale forma estrema di sadismo da parte delle forze dell’ordine. Il 20 febbraio prossimo è attesa la sentenza per un caso analogo, accaduto il 26 ottobre 2015 a Drancy, anch’esso comune di Seine-Saint-Denis. Un ventottenne viene fermato, ammanettato, brutalizzato da tre agenti municipali, uno dei quali, secondo l’accusa, lo sodomizza con un manganello telescopico.
Assai recentemente, il 20 gennaio scorso, a fare le spese di un pesante controllo au faciès è stato Maxem, un liceale sedicenne: fermato da tre poliziotti a Le Raincy, anch’esso comune di Seine-Saint-Denis, viene preso a pugni, quasi strozzato, nonché – ça va sans dire– fatto oggetto d’insulti razzisti in quanto “di origine asiatica”. Condotto, infine, nel commissariato di Bobigny, è trattenuto per diciassette ore senza cibo e acqua, né possibilità di riposare. A conferma della testimonianza dello stesso Maxem – che ha anche postato un selfie coi segni inequivocabili del pestaggio – vi sono due video: il primo, anche in tal caso, è quello delle telecamere di sorveglianza; il secondo è di un testimone oculare delle violenze.
A questa galleria degli orrori del razzismo di Stato conviene aggiungere un altro caso recente: quello di Adama Traoré, ventiquattrenne di origine maliana, morto il 19 luglio 2016, in circostanze assai oscure, nella gendarmeria di Persan (nel dipartimento della Val-d’Oise, anch’esso nell’Île-de-France), poche ore dopo essere stato fermato da tre gendarmi a Beaumont-sur-Oise. Nonostante si lamenti di non riuscire a respirare, è costretto, ammanettato com’è, a restare sdraiato sotto il sole cocente nel cortile della gendarmeria. Infine, perde conoscenza e muore, forse per asfissia da compressione toracica: una fonte giudiziaria rivela che i tre gendarmi lo avrebbero schiacciato con tutto il peso dei loro corpi, secondo un metodo praticato non raramente dalle forze dell’ordine. Ma, secondo la Procura, Adama sarebbe morto per una patologia cardiaca.
Quanto alla pratica della sodomizzazione e di altre violenze sessuali, essa ha un precedente “storico”: tale non foss’altro perché, nel caso che stiamo per citare, la Francia sarà condannata dalla Corte di Strasburgo per uso della tortura. La vittima –inutile precisarlo – è una persona “di origine immigrata”: Ahmed Selmouni, un quarantanovenne con doppia nazionalità, marocchina e olandese. Il contesto è lo stesso: il dipartimento di Seine–Saint–Denis, per la precisione Bobigny. Qui, il 25 novembre 1991, Selmouni, fermato dalla polizia giudiziaria nell’ambito di un’indagine per traffico di stupefacenti, è trattenuto e interrogato in commissariato per tre giorni, durante i quali è massacrato di botte e non solo: cinque poliziotti gli orinano addosso, lo costringono a una fellatio, infine –manco a dirlo – lo sodomizzano con un manganello. Nel corso del fermo egli viene visitato per ben sei volte da medici che rilevano segni di violenze sull’intero corpo.
Soltanto a febbraio del 1999 i cinque saranno giudicati e condannati da un tribunale. Ma, nel giugno successivo, la Corte d’appello di Versailles ridurrà drasticamente le pene a pochi mesi. Un mese più tardi la Corte europea dei diritti umani, come si è detto, condannerà la Francia in base agli articoli 3 e 6§1: cioè per aver praticato la tortura e inflitto un trattamento disumano e degradante, nonché per aver violato il diritto a un’udienza equa entro un termine ragionevole. http://www.altrodiritto.unifi.it/ricerche/carcere/gori/cap2.htm
Avendo senso dell’humour nero, ci si potrebbe chiedere se nell’addestramento delle forze dell’ordine, in particolare di quelle del dipartimento di Seine–Saint–Denis, sia compreso l’uso di violenze sessuali ai danni dei fermati non franco–francesi: preferibilmente con uno strumento professionale d’ultima generazione qual è il manganello telescopico.
Al di là del sarcasmo, è lecito domandarsi quanto retaggio coloniale perduri non solo nei controlli d’identità au faciès e nell’accanimento repressivo–razzista verso i discendenti dei colonizzati, ma anche, in specifico, nella prassi di umiliarli e annientarne la stima di sé attraverso lo stupro meccanico. A tal proposito si può rammentare che durante la guerra d’Algeria le sedute di tortura inflitte ai resistenti comprendevano anche la sodomizzazione con bastoni e canne di pistole. E che lo stupro delle donne, ma anche degli uomini, era parte di una strategia militare all’insegna del terrore.
E’ da lungo tempo che in Francia le persone razzizzate subiscono un tale trattamento: così quotidiano e sistematico da farci dire (con un’espressione un po’ abusata, ma in tal caso appropriata) che lo stato d’eccezione è ormai divenuto permanente. Lo stato di emergenza in vigore dal 14 novembre 2015, col conseguente i
ndurimento della repressione, ha solo accentuato l’opacità e l’impunità abituali di tali pratiche poliziesche.
Non c’è da stupirsi, dunque, se nelle cosiddette zone urbane sensibili (Zus) a ogni episodio di tal genere seguano manifestazioni non sempre pacifiche. Che la collera e l’umiliazione si esprimano in forme di protesta o di rivolta collettive, caratterizzate talvolta da intemperanze, è cosa che dovrebbe essere considerata ben meno grave del rischio che le mortificazioni e la rabbia quotidiane conducano alcuni verso l’approdo jihadista. E, invece, anche in questi casi, la risposta è puramente repressiva, con arresti spesso arbitrari o eccessivi. Né vi sono, per ora, soggetti politici capaci di conferire alle proteste un senso e uno sbocco politico razionali e di lungo respiro..
En passant, va osservato che, su una scala ben minore, la stessa cecità mostra gran parte dell’informazione italiana, anche mainstream, la quale dà conto, perlopiù tardivamente, di episodi gravissimi quale il supplizio inflitto a Théo solo quando alle bavures poliziesche seguono proteste più o meno violente. Così da poter scrivere pezzi sensazionalistici, immancabilmente titolati secondo lo stereotipo “rivolta nelle banlieue” (parola scritta a volte senza neppure la e finale).
Inoltre, non c’è da meravigliarsi affatto che nelle cités cresca e si consolidi l’odio contro i flics. I quali, peraltro, non sono i soli a praticare disprezzo e razzismo verso gli abitanti di tali quartieri, soprattutto verso i giovani non franco-francesi. L’Esagono ha una lunga tradizione di governanti adusi a epiteti e battute sprezzanti nei loro confronti. Un autentico specialista in questo campo è stato Nicolas Sarkozy, soprattutto nel 2005, da ministro dell’Interno. E’ diventato quasi un classico il suo racaille (“feccia”) per definire i giovani difficili di un quartiere sensibile di Argenteuil (Val-d’Oise). Così come l’infelice metafora con cui prometteva di sanificare con acidi corrosivi una cité problematica di Courneuve (Seine-Saint-Denis).
Due giorni dopo la sua promessa, il 27 ottobre 2005, a Clichy-sous-Bois (Seine-Saint-Denis, ancora una volta), Zyed Benna di 17 anni e Bouna Traoré di 15 muoiono fulminati da un trasformatore di una cabina elettrica, ove s’erano rifugiati nel tentativo di sfuggire a un controllo di polizia au faciès. Cosa che scatenerà quella lunga ed estesa rivolta del proletariato giovanile metropolitano cui ancor oggi spesso si allude, della quale, però, mai si è imparata la lezione.
Quasi niente è cambiato da allora. Ché anzi lo stato di emergenza, la crisi economica, la disoccupazione giovanile galoppante al pari della discriminazione e del razzismo, nonché la crescita esponenziale del Front National e di altre formazioni di estrema destra: tutto questo non lascia presagire granché di positivo per gli “indigeni della Repubblica”. Essi sembrano condannati a una condizione quasi castale, come scrisse a suo tempo la sociologa femminista Christine Delphy, privati come sono non soltanto di dignità, rispetto e uguaglianza, ma anche di ogni speranza di mobilità sociale. Basta ricordare, ancora una volta, che un/a giovane che abbia un cognome che suona arabo o subsahariano ha assai meno possibilità d’essere convocato/a per un colloquio di lavoro, rispetto a un/a coetaneo/a franco-francese: a parità di livello d’istruzione.
Eppure qualche indizio positivo s’intravede a margine degli episodi, pur terribili, che abbiamo illustrato. Oggi la racaille sembra non aver più paura di denunciare le violenze poliziesche subite e mette in pratica forme di autodifesa solo in apparenza secondarie, come quella di procurarsene preventivamente le prove.
(11 febbraio 2017)
fonte: https://archivio.micromega.net/theo-e-gli-altri-ovvero-il-razzismo-istituzionale-in-francia/