Dopo che Gorino Ferrarese è salita agli onori (si fa per dire) delle cronache per le sue barricate contro donne e bambini profughi, una nuova notizia è emersa dal fondo melmoso di questa frazione di Goro che conta appena 641 anime. Da almeno un anno e anche durante i giorni della vergogna, all’interno e all’esterno della chiesa locale è restata affissa un’ignobile locandina che recitava: «Visto che noi siamo, per voi, infedeli: ma perché non ve ne andate nel vostro califfato di Iraq con il santo Califfo El Bagdadi, il quale vive di armi e uccide a tutto spiano coloro che non sono sunniti?».
Autore dell’affissione e del testo, non precisamente evangelico, è il parroco Paolo Paccagnella, da oltre venticinque anni pastore delle pie pecorelle di Gorino, il quale di certo non condivide il giudizio severo dell’Arcidiocesi di Ferrara, che aveva definito la notte delle barricate come qualcosa «che ripugna alla coscienza cristiana». Ancor più ripugnante suona oggi l’invettiva del parroco, se si considera che tra le dodici richiedenti–asilo respinte coi loro otto bambini, a furor di barricate alla casereccia, v’erano alcune cittadine nigeriane di fede cristiana, fuggite, in modo tanto avventuroso quanto coraggioso, dalle persecuzioni e dalle orrende violenze di Boko Haram.
Manco a dirlo, anche in questa occasione il sindaco di Goro, Diego Viviani, è caduto dalle nuvole, lui che, durante le barricate, aveva più volte espresso comprensione per «la paura dei cittadini»: così scioccamente opportunista, il sindaco piddino, da non considerare che a dar manforte ai barricadieri caserecci fosse stato un buon numero di leghisti partiti da Ferrara, non precisamente suoi alleati.
In realtà, v’è un coté farsesco nella “protesta” del centinaio o poco più di abitanti che hanno fatto parlare l’Italia e ricattato lo Stato: le barricate costituite da bancali di legno, i barbecue portati lì per l’occasione, gli allegri banchetti innaffiati col vino…Intanto i carabinieri, comprensivi, osservavano a braccia conserte, al massimo cercando di rabbonire paternamente i più agitati. «Non potevamo mica manganellare le persone», ha dichiarato il prefetto di Ferrara, Michele Tortora, in una conferenza–stampa. Chissà se qualcuno gli ha ricordato che in Italia prefetti e forze dell’ordine son soliti manganellare a tutta forza ovunque si profili qualche protesta sociale dalle ragioni ben più nobili e fondate.
Farsesche sono pure le motivazioni addotte dai «nuovi eroi della Resistenza contro la dittatura dell’accoglienza», come ha osato definirli il segretario della Lega Nord di Ferrara. Così ridicole da sembrare una parodia dei cliché del razzismo popolare: “Noi non siamo razzisti, ma…”; “Lo sappiamo che anche quelli in fondo sono esseri umani, ma…”; “Sì, per ora sono solo donne e bambini, ma poi ci sarà l’invasione degli uomini”; nonché alcune varianti del classico “Se ti piacciono tanto, portateli a casa tua”. Farsesca anche la futilità delle loro ragioni, almeno in comparazione con la tragedia di quegli otto bambini e delle dodici giovani donne, una delle quali incinta all’ottavo mese: «Ora che l’ostello è requisito, dove andremo noi donne di Gorino a far colazione e gli anziani a giocare a carte?».
Sappiamo bene che «il culto delle feste in costume», per citare Theodor W. Adorno (Minima Moralia), può sboccare nel fascismo. In tal caso, almeno per ora, non si corre questo rischio. Nondimeno lo spirito provinciale, il gretto attaccamento al campanile, la retorica di “padroni a casa nostra” hanno giocato un certo ruolo nel far emergere il sommerso razzismo, feroce e forse inconsapevole, che ha indotto a respingere un piccolo gruppo di persone più che vulnerabili: bisognose d’aiuto, cura, solidarietà, affetto.
D’accordo: Gorino manca d’infrastrutture, di una scuola, di un ospedale, di un centro commerciale, di luoghi di socialità…Ma mai si è ha avuta notizia di barricate innalzate in quella frazione per rivendicare questo genere di cose. E inoltre: nessuno/a degli abitanti sembra aver considerato che accogliere quelle persone poteva essere, se non altro, un’occasione per aprirsi al mondo, per uscire dal provincialismo o solo per continuare a consumare la colazione al bar dell’ostello Amore-Natura, in compagnia di donne e bambini che avrebbero da raccontar loro storie che neppure sanno immaginare. Un tempo – anche a Gorino, sicuramente – accogliere degnamente i forestieri, soprattutto se in difficoltà, era considerato, in particolare tra le classi popolari, dovere morale, ragione di orgoglio, opportunità di conoscenza.
Tuttavia, il ruolo decisivo, in questa brutta vicenda, lo hanno svolto le istituzioni: dal sindaco di Goro al prefetto di Ferrara, che ha ceduto al ricatto dei barricadieri improvvisati, fino a Matteo Renzi il quale, con stile pilatesco, la ha definita «molto difficile da giudicare», manifestando però indulgenza «verso una parte della popolazione che è molto stanca» (di cosa, non ci è dato sapere).
Non c’è che dire, l’ormai vecchia talpa della pedagogia razzista ha scavato bene e profondamente in tutti questi anni, esercitata da maestri e maestrucoli: dalla Lega Nord, soprattutto, ai neonazisti; da una parte rilevante dei media fino alla politica istituzionale, che non ha offerto fulgidi esempi di antirazzismo, di rispetto dei diritti umani fondamentali, di volontà di riconoscere e integrare – come dicono loro – i cittadini e le cittadine stranieri/e (si pensi alla vergogna degli hotspot o alla riforma della legge sulla cittadinanza, che ancora giace in qualche cassetto del Senato).
Per dirne una delle tante, Angiolino Alfano, mentre usava, a giusta ragione, parole di fuoco per stigmatizzare le barricate e il ricatto vincente di Gorino, taceva su una storiaccia rivelata di recente da Barbara Spinelli e Marie-Christine Vergiat. In una lettera, sottoscritta da ventitre parlamentari europei e indirizzata a lui, a Paolo Gentiloni, ministro degli Affari esteri, e a Franco Gabrielli, capo della polizia di Stato, le due europarlamentari denunciano il rimpatrio forzato, eseguito lo scorso 24 agosto, di quaranta cittadini sudanesi: fuggiti a causa delle persecuzioni ad opera della feroce dittatura che domina il loro Paese, nondimeno arrestati e caricati con la forza su un volo diretto a Khartoum.
«Questa espulsione di massa – scrivono Spinelli e Vergiat – ha portato alla luce l’esistenza di un Memorandum con il Sudan […], sottoscritto il 3 agosto a Roma dal capo della polizia italiana, Franco Gabrielli, e dal suo omologo sudanese, generale Hashim Osman Al Hussein, alla presenza di funzionari del ministero dell’Interno e del ministero degli Affari esteri. Un accordo tenuto a lungo segreto, mai discusso né ratificato dal Parlamento italiano, che prevede la collaborazione delle polizie dei rispettivi Paesi nella gestione delle migrazioni e delle frontiere».
In conclusione, se vale la pena di parlare del caso Gorino (e dei tanti simili sparsi per la Penisola) è perché esso illustra in modo esem
plare non già il popolare teorema, infondato, della “guerra tra poveri”, bensì una tesi che sosteniamo da lungo tempo. Per dirla in breve, il razzismo popolare è, in fondo, rancore socializzato: l’insoddisfazione e il risentimento per la condizione che si vive, il senso d’impotenza e di frustrazione di fronte alle trasformazioni della società e alla crisi economica, sociale, identitaria sono indirizzati verso capri espiatori, grazie all’opera svolta dagli imprenditori politici e mediatici del razzismo.
(31 ottobre 2016)