Tunisia: tra la minaccia jihadista e il rischio d’una svolta autoritaria

Gli ultimi, sanguinosi attentati jahdisti in Tunisia (al Museo del Bardo, a Port El Kantaoui, Sousse) non sono affatto eventi imprevedibili, isolati, irripetibili. E perciò non c’è da stupirsi se il 4 luglio scorso Beji Caid Essebsi, il presidente della Repubblica, ha decretato lo stato di emergenza.

I più si chiedevano come mai non lo avesse fatto già dopo la strage del Bardo. Il che non vuol dire che si sottovaluti la gravità di questa misura, oltre tutto vana, temiamo, ad arginare l’escalation del terrorismo jihadista. Infatti, più di tre anni di stato di emergenza – dal 14 gennaio 2011, giorno della fuga di Ben Ali, al 5 marzo 2014 – non hanno impedito che l’onda nera di un integralismo sempre più violento montasse fino a divenire elemento quasi strutturale della transizione tunisina: in realtà, una delle forme della controrivoluzione tra le più perniciose.

Conviene ricordare che l’onda nera si manifesta già il 18 maggio 2011, a Rouhia (Siliana), con lo scontro armato tra jihadisti e forze di sicurezza, subito seguito, a Kairouan, dal grande, sinistro meeting di Ansar al-Sharia. Questa, che è la principale organizzazione salafita-jihadista (di stampo takfirista, per la precisione), si era costituita appena un mese prima, approfittando dell’amnistia generale, della libertà di espressione, dell’atteggiamento a dir poco ambiguo di Ennahda. E si è radicalizzata fino a costituire un proprio braccio armato, Katibat Okba Ibn Nafaa, cui sembra appartenessero i due giovani terroristi del Bardo, uccisi dalle forze di sicurezza.

Lungo è l’elenco delle provocazioni, delle violenze, degli omicidi politici, degli attacchi armati . Altrettanto lunga la lista di dichiarazioni e atti incauti, se non compiacenti o conniventi, del partito islamista detto moderato. Per tutti, basta ricordare l’infelice battuta sui salafiti, ormai divenuta cult, pronunciata nel 2012 da Rachid Ghannouchi, tra i massimi dirigenti di Ennahda: “Sono i nostri figli. Mi ricordano lo slancio della mia giovinezza. Vogliono promuovere una nuova cultura”. Paradossalmente, oggi Ennahda, che fa parte del governo in carica, approva la decisione di Essebsi, mentre il CPR, partito dell’ex presidente della Repubblica, Moncef Marzouki, la ritiene una grave violazione della Costituzione.

Oggi v’è il rischio non solo che il ciclo attuale, ormai di aperto terrorismo, s’intensifichi in un crescendo sempre più vertiginoso, come lo stesso Essebsi ha paventato nel suo discorso alla nazione; ma anche che la risposta repressiva, lo stato di emergenza e l’imminente nuova legge anti-terrorismo inneschino il circolo vizioso che conduce all’affossamento dei diritti e delle libertà civili.

Per questa ragione, il 1° luglio scorso aveva minacciato di dimettersi la presidente della Commissione parlamentare sui diritti e le libertà, Bochra Belhaj Hmida, già co-fondatrice dell’Associazione tunisina delle donne democratiche (ATFD), poi approdata in Nidaa Tounes (Nidā Tūnus), il partito di Essebsi, vincitore delle elezioni del 2014, che di certo non è una formazione di estrema sinistra.

E il giorno dopo Hamma Hammami, portavoce del Fronte popolare, aveva rivendicato a gran voce una riforma radicale del ministero dell’Interno, conforme alla nuova Costituzione, “altrimenti i tunisini potranno dire addio alla libertà e alla democrazia”. Come abbiamo già scritto varie volte, sebbene fuori legge, l’ex partito unico, l’RCD, sembra tuttora ben insediato non solo in sistemi finanziari e reti mediatiche, ma soprattutto in apparati di sicurezza e gangli del ministero dell’Interno. Sicché la criminalizzazione della conflittualità sociale, la repressione violenta delle manifestazioni, la tortura dei fermati e degli incarcerati continuano come se nulla fosse successo.

Non osiamo immaginare cosa potrebbe accadere dopo il varo della nuova legge anti-terrorismo e in regime di stato di emergenza: questa volta ben più duro che nel triennio passato, come lascia immaginare l’allusione di Essebsi agli “scioperi legittimi e illegittimi, che sfiorano la disobbedienza civile”.

Insomma, il piccolo Paese che, soprattutto grazie alla forza dell’insurrezione popolare, si è saputo liberare, in modo pressoché pacifico, di un dittatore sostenuto da tanti paesi dell’Unione europea; che ha subito imboccato la strada, per quanto accidentata, della transizione democratica; che esprime una società civile di rara ricchezza, complessità e vivacità: questo Paese oggi corre il rischio del crollo della sua fragile democrazia e di un’economia resa ancor più precaria dalla crisi del turismo. Talché non è esagerato temere lo spettro di un’instabilità simile a quella libica o di una svolta autoritaria.

La Tunisia avrebbe bisogno, quindi, del sostegno concreto dell’Unione europea e della nostra solidarietà attiva. Ci sembra, invece, che da noi, perfino in ambienti di sinistra – con l’eccezione di alcune associazioni –, a un’effimera passione per la “primavera araba” siano subentrati disinteresse e noncuranza. Sicché la strage di Port El Kantaoui (39 vittime) ha suscitato meno emozione di quella del Museo del Bardo (24 vittime) ed entrambe hanno impressionato assai meno che l’attentato contro Charlie Hebdo (12 vittime). Per quel che ci risulta, dopo l’ultima carneficina nessuna manifestazione di piazza si è svolta in Italia. Eppure la sorte di questo Paese, che ci è vicino in molti sensi (in linea d’aria, Capo Bon è a 66 chilometri da Pantelleria), che, nonostante tutto, ci ha dato la lezione di una rivoluzione democratica, dovrebbe riguardarci quasi quanto quella della Grecia.

Prima della notizia dello stato di emergenza sicuritaria, il quotidiano tunisino Le Temps scriveva che occorre decretare lo stato di emergenza economica e sociale. E aveva ragione. Come non ci stanchiamo di ripetere, è soprattutto l’irrisolta questione economico-sociale a costituire il brodo di coltura del terrorismo jihadista. Anzitutto: vittima del FMI non è solo la Grecia; la stessa Tunisia ha dovuto pagare lo scotto del Piano di aggiustamento strutturale con l’aumento di tasse e imposte, il blocco dei salari, la revisione della protezione sociale, il congelamento della Cassa di compensazione (che stabilizza i prezzi dei prodotti di base). Inoltre, i governi succedutisi dopo la fuga di Ben Ali, tutti d’ispirazione neoliberista, mai hanno affrontato problemi quali la disoccupazione galoppante e le drammatiche disparità regionali.

Come confermava nel 2013 il Rapporto dell’International Crisis Group, dal punto di vista sociologico i giovani salafiti appartengono alla stessa “gioventù rivoluzionaria che ha combattuto le forze dell’ordine durante la sollevazione (…) e che, inoccupata e sovente disorientata, nel salafismo trova un’identità e un utile sfogo”. Si sa, le varie formazioni salafite-jihadiste reclutano soprattutto tra i giovani, più o meno marginali, amaramente delusi per il tradimento delle promesse della
Rivoluzione. Basta ricordare che ben tremila sono i tunisini partiti per combattere la “guerra santa” in Siria, Iraq e Libia.

Ha ragione l’antropologo Alain Bertho: si tratta di una mortifera forma contemporanea della rivolta, “che la sola logica poliziesca e militare non riuscirà ad annientare”. Ed efficace è la sua formula “islamizzazione della rivolta radicale”. Ma occorrerebbe analizzare più a fondo le innumerevoli mediazioni che conducono a quest’esito mortifero: tra le altre, l’efficacia del messaggio dell’Isis, in termini di propaganda e suggestione di massa. Tale da riuscire, come nel recente caso italiano che ha del grottesco, a conquistare al jihad una modesta e banale famiglia piccolo-borghese, che chiacchiera di martirio e di orti da coltivare con la medesima, irresponsabile nonchalance. Non sarà che ormai morta è l’Utopia capace di parlare in lingua laica e comprensibile ai diseredati e agli umiliati del pianeta?

Versione ampliata dell’articolo uscito sul manifesto del 6 luglio 2015

(6 luglio 2015)

 

fonte: https://archivio.micromega.net/tunisia-tra-la-minaccia-jihadista-e-il-rischio-duna-svolta-autoritaria/