Non sempre mi sono sentita in sintonia con Charlie Hebdo, che pure sin dalla giovinezza è stato tra i segni distintivi del mio habitus: quasi come le sigarette, il manifesto, il caffè zuccherato, i vestiti di color viola o verde, la borsa a tracolla, i monili d’argento, il trucco agli occhi, la bibliofilia… Dico “quasi” perché era un vizio che si poteva soddisfare in modo intermittente, quando si andava in Francia e ci si precipitava a comprarlo. Un vezzo i cui germi erano nel ’68, che amava Linus e le bandes dessinées, Wolinski come Reiser, Crepax e altri grandi disegnatori (più tardi, a perpetuare quel vezzo ci sarebbero stati Il Male e Cuore).
E’ stato, quello per Charlie Hebdo e in particolare per Charb, un amore tormentato. Mi son sempre piaciuti l’irriverenza e incompatibilità assolute, il gusto dello sberleffo trasgressivo e outré, l’insolenza scandalosa verso ogni potere e ideologia costituiti. E mai ho preteso, da loro, il politicamente corretto. Ma, quando, nel 2005, sopraggiunse l’affaire delle vignette danesi, che presto sarebbe diventato sanguinoso, mi disturbò un poco che Charlie pubblicasse non le sue ma quelle “caricature”, di cui alcune ricalcavano stilemi propri dell’iconografia antisemita. Che finisse per tener bordone, di fatto, al Jyllands Posten: cioè al quotidiano, dall’orientamento decisamente anti–immigrazione e anti–musulmano, che era la voce ufficiale del partito conservatore, allora al governo. E che in tal modo contribuisse – il mio Charlie! – a trasformare una vicenda minore in una controversia internazionale di portata esplosiva: centinaia di persone arrestate e decine uccise nel corso di manifestazioni di protesta.
Ad avermi riconciliata con Charlie, dopo questa parentesi, è stata l’ammirazione per il fatto che, pur detestati da reazionari, benpensanti, politici vari, pur minacciati per un decennio da islamisti fanatici, tutti loro avessero conservata intatta l’irriverenza verso fanatismi di ogni genere, anche verso quelli apparentemente laici, compresi i dogmi del profitto e del neoliberismo.
Oggi, provo un senso doloroso di lutto per l’orrenda carneficina e il suo epilogo da incubo (diciassette vittime in tre giorni), per il riattivarsi della violenza antisemita, per la perdita dei miei miti, per la mia cultura lacerata. Ma soprattutto per lo scenario tragico che si profila e per l’inadeguatezza dei nostri schemi e categorie a interpretare o almeno a cogliere in profondità il senso di ciò che è accaduto e che accadrà.
E’ anche per questo, non solo per lo choc, che ho esitato a prendere la parola: neppure la mia antropologia critica, una certa conoscenza dell’islam delle periferie, l’impegno più che ventennale contro il razzismo e l’islamofobia mi garantiscono strumenti sufficienti ad analizzare la pulsione di morte e il totalitarismo bellico che, esportati dall’Occidente in plaghe aliene (Iraq, Afghanistan, Libia, Siria, Mali…), come per contraccolpo si riproducono da noi.
E’ per questo che non mi persuadono gli schemi precostituiti: quelli di tipo antimperialista–classico, quelli di genere complottista che dilagano sul web, ancor meno quelli che, facendo riferimento a Liberté, Egalité, Fraternité, tornano a concettualizzare in termini di Civiltà/Barbarie, di scontro di civiltà e, più in generale, di essenze e generalizzazioni arbitrarie. Tra queste, gli enunciati che evocano l’incompatibilità assoluta “tra laicità e religione, diritti individuali e norme comunitarie” che caratterizzerebbe in toto l’islam (opposizioni arbitrarie, anche perché antinomico a laicità non è religione, bensì clericalismo e/o fondamentalismo).
In realtà, ciò che si nomina è un islam immaginario, decontestualizzato e sottratto alla storia. Se è vero che esso ha conosciuto epoche, fasi, attualizzazioni, anche odierne, improntate a spirito di apertura e tolleranza, e orientate verso il rispetto delle minoranze e il riconoscimento dei loro diritti. Se è vero che ha prodotto un precoce illuminismo ante litteram con la filosofia di Ibn Khaldûn (XV sec.), uno dei padri fondatori della storiografia, della sociologia, dell’antropologia, la cui eredità arriva fino ai nostri giorni: basta citare studiosi come il rimpianto Mohamed Arkoum, filosofo e storico dell’islam, difensore strenuo di una laicità rinnovata, che non sia fondamentalista a sua volta.
La strage torna a riattivare, fra l’altro, l’immaginario alla Fallaci o alla Huntington, che polarizza Occidente/Oriente, The West and the Rest, secondo le rispettive figure del Bene e del Male: immaginario di cui si nutrono e profittano sia la destra reazionaria e razzista, sia le varie forme d’islamismo violento, in un perverso gioco di specchi.
In un volume collettaneo del 2002, da me curato (L’inquietudine dell’islam, Dedalo, Bari), che raccoglie i contributi del già citato Arkoum, del sociologo italo–iracheno Adel Jabbar, dell’antropologo svizzero–tunisino Mondher Kilani, del sociologo franco–iraniano Farhad Khosrokhavar (oltre al mio e a quello di Joceline Césari), scrivevo che il cosiddetto Occidente è a–topico, poiché comprende tanto i centri della finanza internazionalizzata quanto gli sceicchi e i regimi legati al business petrolifero, con gli interessi e le strategie che perseguono: tra queste, il sostegno ai movimenti islamisti, anche di tendenza jihadista e takfirista, anche di stampo terrorista.
Già allora, in quel libro e altrove, analizzavamo ciò che Khosrokhavar definiva, in riferimento alla Francia, islam dell’esclusione. Ed è questa una delle tante chiavi (non certo la sola!) che potrebbe aiutarci a comprendere gli attentati di matrice islamista “a casa nostra”.
In assenza ormai, nei “quartieri difficili”, di agenzie di socializzazione e politicizzazione (tra queste, le sezioni del Pcf e della gioventù comunista, per esempio) nonché delle stesse istituzioni pubbliche, l’esclusione sociale e il razzismo producono, tra le giovani generazioni di origine immigrata, frustrazione e senso d’inferiorità e d’indegnità. A compensare e a trascendere questi sentimenti per riconquistare dignità, non vi sono più le grandi narrazioni del riscatto e neppure, almeno per ora, un’estesa rivolta dei ghetti come quella che infiammò l’autunno francese del 2005.
Gli insulti più grevi (qualche mese prima Sarkozy aveva incitato a sanificare le cités col kärcher, per ripulirle dalla racaille, la feccia umana), la repressione e le misure di stampo coloniale furono le sole risposte che le istituzioni seppero dare alla grande questione sociale e culturale che quella rivolta, pur così scomposta, aveva squadernato.
Oggi il millenarismo di stampo jihadista o takfirista, con la sua immancabile componente antisemita, per quanto detestabile e criminale possa essere, può apparire attraente per reietti, emarginati e piccoli delinquenti alla ricerca di rivincita e affermazione del sé. Come nei casi non solo dei
fratelli Kouachi ma anche di Mohamed Merah (il presunto autore degli attentati del 2012, anch’egli ucciso dalle forze speciali), la prigione può essere una scuola di fanatismo decisiva. A tal proposito, è notevole come l’esito delle stragi ricalchi il medesimo schema. Anche questa volta più di qualche dubbio è lecito a riguardo dell’efficacia o dello zelo dei servizi di sicurezza francesi: secondo Libération, da molti mesi la DGSI (Direzione generale della sicurezza interna) aveva smesso di sorvegliare i fratelli Kouachi, pur gravemente sospettati.
A esorcizzare questa tragedia non basterà certo la manifestazione oceanica dell’11 gennaio a Parigi, con la presenza di esponenti sommi d’istituzioni nazionali ed europee, di capi di stato e di governo, compresi i più reazionari e fascisti, e perfino del segretario generale della Nato. Per non dire che il fiume di retorica, l’ipocrisia dilagante, l’unanimismo, la pretesa di fare di Charlie Hebdo un simbolo della riscossa repubblicana sono esattamente il tradimento del suo spirito: che era e speriamo resti bête et mechant.
Questo unanimismo, ha dichiarato amaramente, in un’intervista per Les Inrocks, il disegnatore Luz, scampato alla strage, è utile a Hollande per rinsaldare la nazione e a Marine Le Pen per reclamare la pena di morte.
Da noi se ne gioverà soprattutto la destra, compresa Forza Italia, e in specie il blocco fascio–leghista. Entrambi vomitano, ormai quotidianamente, metafore belliche, odio contro gli alieni, fatwa contro il “multiculturalismo buonista”, proposte oscene come quella di ributtare a mare tutti i rifugiati e i migranti.
Domenica sera, mentre in piazza Farnese, davanti all’Ambasciata di Francia, una folla non troppo numerosa applaudiva alla bandiera che saliva sul pennone al suono della Marsigliese ma anche delle campane della chiesa vicina, ho pensato: “Tutto questo sarebbe pane per i denti di Charb…”.
(12 gennaio 2014)