Come premessa, occorre dire che il caso di «Caterina e la vivisezione» si configura come uno scandalo montato ad arte. Si potrebbe sospettare che sia una sorta di ritorsione per la vittoria ottenuta con la chiusura di Green Hill, dopo anni di lotte, repressione e manifestazioni, anche di massa. Ricordiamo che a metà luglio il mostruoso allevamento di cani beagle, destinati a esperimenti di ogni genere in tutta Europa, con sede a Montichiari, di proprietà della multinazionale Usa Marshall Farms Inc., è stato chiuso dalla magistratura, che ha incriminato i vertici dell’azienda.
Per ispirazione, come sembra, d’interessi assai corposi, il caso della studentessa gravemente malata, insultata in rete dagli immancabili mentecatti per aver difeso la sperimentazione su animali, è stato artificiosamente gonfiato dai media di ogni tendenza, che ne hanno stravolto il senso e le proporzioni reali, riducendolo a gossip da vacanze di Natale. Nel corso di questa blaterazione scandalistica, che parte da un presupposto indimostrabile – gli autori degli insulti virtuali sarebbero rappresentativi dell’«animalismo»- si sono perse densità e profondità dei dilemmi e della stessa elaborazione teorica dell’antispecismo. La quale ha antecedenti assai illustri: fra tutti basta citare la Scuola di Francoforte.
Pochi sono stati finora i commenti, da parte non antispecista, che si siano misurati con la complessità della questione. Si sa, è tipicamente italiano prendere la parola pubblicamente su qualsiasi tema – e su questo più che su altri – pur non avendone alcuna competenza.
Come prototipo del genere di articoli che si pretendono colti ed equidistanti, ma che scontano una conoscenza approssimativa del dibattito antispecista e non solo, assumiamo quello del teologo Vito Mancuso: Sull'”antinaturalismo” degli animalisti, apparso il 29 dicembre scorso su La Repubblica e ripreso nella prima pagina di MicroMega online.
Per cominciare: Mancuso dà per scontato che a insultare Caterina Simonsen siano stati «gli animalisti», mentre la sola cosa certa è che sono esponenti della vasta categoria di imbecilli che, grazie alla volgarità dilagante e alla caduta dei freni inibitori indotta dalla rete, vomitano insulti contro chicchessia.
Non solo: il teologo si rivela alquanto ignaro degli orientamenti, teorie, dibattiti che attraversano il mondo, assai eterogeneo, degli interessati alla sorte dei non umani. Così che, non distinguendo tra zoofili, animalisti, antispecisti, infila tutti nel medesimo calderone. Dà per scontato, per esempio, che ad accomunare gli «animalisti» sia il fatto di «volere per gli animali gli stessi diritti dell’uomo». E invece vi è una corrente antispecista, perlopiù d’ispirazione anticapitalista, marxista e/o libertaria, che rifiuta di parlare di diritti animali e pone l’accento sui processi di liberazione, riguardanti umani e non umani.
Inoltre, Mancuso attribuisce abusivamente agli «animalisti», quale tema etico fondamentale che li caratterizzerebbe, la questione violenza/nonviolenza: dilemma serio, ma che, almeno in questo articolo, è trattato in modo discutibile, proiettando sugli altri – gli «animalisti»- una questione che è sì centrale, ma anzitutto nel suo pensiero. Di conseguenza, egli assimila, quali vittime della violenza umana, patate, cipolle, batteri, topi e primati (gli ultimi due non nominati esplicitamente, ma la sperimentazione animale, si sa, ha loro tra le vittime principali).
In realtà, se il teologo si fosse confrontato con qualche buon saggio, non necessariamente antispecista in senso stretto – per esempio, con L’animale che dunque sono di Jacques Derrida -, saprebbe quali siano le domande principali: gli altri animali sono capaci di gioire, soffrire, comprendere? Non sono forse delle singolarità irriducibili?
Altrettanto convenzionale è la concezione mancusiana dei non umani. Non per caso egli, tra tutti i filosofi che, almeno a partire da Montaigne, si sono posti la questione, cita proprio e solo Kant: ovvero colui del quale Theodor W. Adorno ha criticato l’odio e l’avversione per gli animali, e la morale priva di compassione o commiserazione.
Tra i tanti passaggi di questo articolo improntati al senso comune, la frase «A parte quella umana, nessuna specie cesserà mai di seguire l’istinto sotto cui è nata» appare non troppo degna di uno scritto che si pretende colto. Da lungo tempo studiosi in vari campi, compresi gli etologi, hanno messo in discussione la nozione di istinto, ammettendo che numerose specie animali possiedano intelligenza, sensibilità, intenzionalità, singolarità, capacità di simbolizzazione e di empatia, nonché cultura: intendendo come elemento minimo basilare di quest’ultima l’attitudine a elaborare soluzioni differenziate per risolvere uno stesso problema nel medesimo ambiente.
Inoltre, l’affermazione di Mancuso «L’uomo al contrario ha imparato a poco a poco a estendere gli ideali di giustizia a tutti gli esseri umani, compresi quelli dalla pelle diversa» è contraddittoria oppure è il frutto di un grave lapsus. Egli, infatti, colloca questa frase dopo un passaggio nel quale scrive: «nessuna specie animale estenderà mai alle altre specie i diritti di supremazia che la natura lungo la sequenza della selezione naturale le ha concesso». Forse che gli esseri umani «dalla pelle diversa» (diversa da chi?) appartengono a una famiglia altra da quella di Homo Sapiens? En passant, aggiungiamo che il teologo sembra ignorare che certi primati, in particolare i bonobo studiati da Frans de Waal, conoscono sentimenti e comportamenti quali altruismo, compassione, empatia, gentilezza, pazienza, sensibilità, perfino moralità, estesi anche al di là della loro specie.
In sostanza, Mancuso ripropone come universale la vecchia dicotomia natura/cultura, tipicamente occidentalocentrica, sconosciuta a tanta parte dell’umanità, che ha elaborato, invece, ontologie e cosmologie fondate sul paradigma della continuità. Questa dicotomia è stata abitualmente articolata in funzione di una serie di antitesi complementari quali innato/acquisito, eredità/ambiente, istinto/intelligenza, spontaneo/artificiale: opposizioni arbitrarie, che discendono da un’ideologia legata a una forma peculiare di razionalità – quella strumentale – che raramente si è interrogata o ha messo in questione il proprio arbitrio o la propria parzialità. E’ proprio la razionalità strumentale – figlia del cogito cartesiano, a sua volta erede della «filiazione giudaico-cristiana, dunque sacrificalista» – che produce oggi un livello tale di assoggettamento e mercificazione dei non umani che, per citare ancora Derrida, «qualcuno potrebbe paragonarli ai peggiori genocidi».
Fonte: https://archiviopubblico.ilmanifesto.it/Articolo/2003218377