Tre giorni fa ho appreso con angoscia dell’arresto di un amico tunisino, il cineasta Nejib Abidi, e di altri/e 7 giovani artisti/e impegnati/e. All’alba del 21 settembre la polizia ha fatto irruzione in casa di Nejib e con lui ha arrestato Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayed, Skander Ben Abid, nonché due amiche artiste. Ho conosciuto Nejib e i suoi compagni a Tunisi, dove mi avevano intervistata sulla vicenda, tragica e oscura, dei giovani partiti in mare alla volta di Lampedusa nel marzo del 2011 e scomparsi nel nulla.
Vicenda sulla quale intendevano realizzare un documentario. L’avevo poi ritrovato a Roma: era venuto in Italia, insieme ad altri, a cercare tracce e testimonianze sui dispersi.
Un comunicato di solidarietà con gli otto arrestati, del 22 settembre, redatto da un gruppo di attivisti che fa riferimento a Radio Chaabi (fondata dallo stesso Nejib), informa che il giorno prima dell’arresto qualcuno si era introdotto in casa a rubargli i due hard disk contenenti i rush del documentario e aveva cancellato irrimediabilmente i dati del secondo. Nejib -continua il comunicato- era «apparso in pubblico l’ultima volta durante le manifestazioni in sostegno di Jabeur Mejri e Nassredine Shili, produttore del suo film».
Ricordo che Mejri è uno dei due giovani di Mahdia che nel 2012 furono condannati (il secondo, Ghazi Béji, in contumacia) a ben sette anni e mezzo di carcere per aver postato su Facebook testi e immagini reputati blasfemi. E Shili, attore e regista, è in prigione per il lancio di un uovo contro il ministro della Cultura, il laico Mehdi Mabrouk, un tempo sociologo delle migrazioni e oppositore del regime benalista, del quale ha sempre denunciato la politica liberticida, è oggi zelante esecutore della linea repressiva del governo dominato da Ennahda, il partito islamista. Nel contesto della grave crisi politica conseguente agli assassini premeditati di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – leader dell’opposizione e dirigenti del Fronte popolare -, si è intensificata la caccia alle streghe contro chiunque pretenda di esprimersi, comunicare, informare in modo libero, indipendente, non-conformista: femministe (a cominciare da Amina «Tyler» Sboui), rapper, graffitisti, artisti di strada, blogger, giornalisti anche ben noti come Zied el-Heni, perfino proprietari di tv non addomesticate. I più tratti in arresto in modo del tutto illegale, imputati con accuse grottesche, sottoposti a processi-farsa da una magistratura che niente sembra avere di indipendente. Nel caso di Nejib e degli altri sette, finora, si scrive nel comunicato, «non è stata fornita alcuna ragione ufficiale che giustifichi il loro arresto e la loro detenzione» e si ignora «il luogo dove sono stati condotti e il loro stato di salute».
Anche in questo caso c’è da confidare nella risposta della società civile tunisina, perché gli otto siano presto liberati. Non è una fiducia infondata: il 17 settembre scorso, per protestare contro l’intensificarsi della repressione e i tentativi crescenti d’imbavagliare l’informazione, il sindacato nazionale dei giornalisti insieme con il sindacato della cultura e dell’informazione dell’Ugtt aveva promosso uno sciopero generale riuscito al 90%.
È questa diffusa reattività sociale che ci fa ritenere sia un errore dare per sepolta la Rivoluzione del 14 gennaio. È vero: la Tunisia attraversa oggi la fase più difficile della transizione, segnata da una gravissima crisi politica, che sembra irresolubile e in più si accompagna con un’altrettanto grave crisi economica e sociale. Nondimeno lo spirito della rivoluzione non sembra affatto morto, come testimoniano Nejib Abidi e i tanti giovani e meno giovani attivisti e attiviste che ogni giorno lo vivificano, quello spirito, con la parola, l’arte, la performance, la lotta.
Fonte: https://archiviopubblico.ilmanifesto.it/Articolo/2003215186