La strage dei sei braccianti romeni avvenuta il 24 novembre a Rossano Calabro è passata quasi sotto silenzio, anche nella stampa di sinistra, più attratta dallo show delle primarie e da una politica-spettacolo sempre più distante dal tema del lavoro.
A dicembre del 2007, sette operai muoiono in seguito all’incendio scoppiato nelle acciaierie della ThyssenKrupp di Torino. La strage, causata dall’incuria delittuosa dei responsabili dell’azienda, suscita grande emozione. Quasi tutti i media dedicano ampio spazio a questo esemplare crimine del profitto, le tre centrali sindacali proclamano tre giorni di lutto e si costituiscono parte civile nel processo. Infine, grazie alla mobilitazione degli operai e dei familiari, e alla vigilanza esercitata dalla società civile, il processo di primo grado si chiude il 15 aprile 2011 con una sentenza che costituisce un precedente importante: l’amministratore delegato dell’azienda è condannato, per omicidio volontario, a 16 anni e mezzo di reclusione; a pene di poco minori sono condannati, per cooperazione in omicidio, gli altri cinque dirigenti che siedono sul banco degli imputati. Proprio in questi giorni è in corso il processo d’appello: gli imputati, tutti contumaci, hanno la spudoratezza d’incentrare la loro linea difensiva intorno alla tesi della distrazione degli operai.
Il 24 novembre 2012, nei pressi di Rossano Calabro, sei giovani braccianti stagionali di nazionalità romena, tre donne e tre uomini, perdono la vita falciati da un treno. I sei tornavano “a casa” – in realtà una baracca accanto a una stalla – dopo una giornata faticosa (eppure era sabato) trascorsa a raccogliere clementine. Viaggiavano a bordo di un furgone, travolto mentre attraversava un passaggio ferroviario incuneato fra le proprietà agricole: l’aveva in gestione il loro stesso datore di lavoro, il quale l’aveva ottenuto da qualche amministratore, d’accordo con le Ferrovie dello Stato, forse in cambio di favori elettorali.
Della loro storia conosciamo qualche dettaglio grazie a una testimonianza raccolta dall’emittente romena Pro Tv e al “Quotidiano della Calabria”, che ne riprende i passaggi salienti in un buon articolo del 29 novembre, firmato da Valerio Panettieri. Cosmin, il testimone tornato presto in patria, racconta di un intermediario di Bucarest che aveva reclutato lui e le sei vittime per la raccolta degli agrumi nelle campagne del rossanese: in sostanza, una forma di delocalizzazione del caporalato, che in Italia è ormai punibile come crimine. Il salario pattuito era di 25 euro per una giornata di lavoro di otto ore. In realtà la paga, decurtata di varie “voci”, anzitutto della percentuale dovuta all’intermediario, si riduceva a 7-8 euro per dodici ore di lavoro al giorno. I rapporti erano di tipo quasi servile, l’obbligo di tacere era assoluto, le minacce – sembra – abituali.
TyssenKrupp: sette omicidi di lavoro; Rossano Calabro: sei omicidi di lavoro, comunque li si voglia mascherare. E’ la differenza di un’unità che può spiegare l’abisso fra la doverosa attenzione riservata al primo caso e la quasi indifferenza verso il secondo? Sì, certo, il sindaco di Rossano e il presidente della Repubblica hanno espresso le loro condoglianze ufficiali, ma nessun indizio di emozione collettiva o solo di attenzione è stato possibile percepire.
Prevedibile era che certi giornali mainstream non versassero troppe lacrime sulla strage dei sei giovani lavoratori stranieri; e che nei casi migliori tenessero la notizia per un solo giorno, senza uno straccio d’inchiesta successiva. Meno scontato era che quotidiani come “L’Unità” e perfino “il manifesto” la relegassero in un trafiletto come terza o quarta notizia. Eppure a sinistra molte volte si deplora, a giusta ragione, la marginalizzazione del tema del lavoro e della “questione operaia”. Non è forse questo un esempio lampante del disconoscimento dei lavoratori e delle lavoratrici migranti come componente legittima della classe operaia?
Ma in quei giorni c’era (purtroppo c’è ancora) lo show delle primarie a dominare su ogni altra notizia. Il che la dice lunga sul politicismo che alberga anche dalle parti della sinistra (o della ex sinistra). “Politicismo” è invero troppo debole. Si dovrebbe parlare piuttosto di attrazione per la politica-spettacolo: una commedia dell’arte dei nostri tempi, la quale, espulsi i personaggi dei subalterni, mette in scena la tenzone fra i “leader”. Costretti, chi per vocazione e chi per obbligo, a indossare la maschera di Scaramouche, Leandro o Balanzone…
Ma torniamo alla vicenda dei sei braccianti romeni. Come ha scritto Adriano D’Amico, responsabile del Dipartimento migranti della Cgil di Cosenza, infine “l’immagine che più ci rappresenta è quella dei becchini che litigano sui resti di sei giovani vite spezzate”. Sì, perché anche questo è accaduto. Sul luogo dell’incidente sono arrivati prontamente i necrofori di tre agenzie private concorrenti. Ne è scaturita una rissa, con le barelle usate come armi contundenti e il corpo straziato di una delle vittime gettato per terra. I sei, che da vivi non erano che braccia da lavoro, da cadaveri sono ridotti a pura e semplice merce, contesa dal mercato delle salme. Se ne sono rivendicate le spoglie; nessuno, da noi, ne ha rivendicato le storie e le biografie singolari. Nessuno ha restituito loro il nome, il rispetto e la dignità che meritavano. Speriamo che lo faccia almeno la magistratura, per ciò che le compete.
(30 novembre 2012)
fonte: https://archivio.micromega.net/uccisi-dal-profitto-oscurati-dalle-primarie/