Era l’alba degli anni sessanta quando un gruppo di adolescenti vide per la prima volta un cadavere: il corpo ricomposto a malapena di un ragazzo, loro compagno di vacanze estive al mare. Per ironia tragica della sorte, lui, campione di tuffi, era precipitato da un’impalcatura del cantiere che costruiva l’Italsider di Taranto. Era una delle prime vittime dell’acciaieria, oltre che di una bocciatura scolastica punita con l’obbligo di un lavoro estivo.
Lavoro nerissimo, controlli zero e neppure il minimo rispetto della sicurezza: era il sistema, che sarebbe diventato sempre più reticolare, degli appalti e dei subappalti, favorito dalla stessa Italsider per tagliare tempi e costi dei lavori e disporre di manodopera sottomessa. Quello fu solo uno degli omicidi bianchi più precoci, destinati a diventare la lunga sequela che avrebbe scandito la vita quotidiana della città. Già altissimo nella fase della costruzione dello stabilimento, il tasso d’infortuni, compresi i mortali, nel 1970 s’impennò a 1.694 ogni 1.000 operai: in sostanza quasi due infortuni l’anno per ogni operaio (Z. Iafrate, Omicidi bianchi: il primato Italsider, “Rassegna Sindacale”, n. 228, 1972).
Ben presto ai sacrificati direttamente dal profitto si sarebbero aggiunte le vittime dell’inquinamento, anch’esso figlio del profitto, la cui entità mostruosa è talmente nota che sarebbe pletorico insistervi. A proposito del sistema degli appalti, è per suo tramite che nella Città dei due Mari esordiva e s’infiltrava la mafia, che poi si sarebbe organizzata nella Sacra Corona Unita, nella Nuova Camorra Organizzata e in altre reti criminali. Insomma, la “cattedrale nel deserto” e il sistema mafioso stravolsero per sempre non solo l’ecosistema ma anche il tessuto sociale e politico della città, un tempo comunista in massima parte, e produssero alla lunga boss feroci come i fratelli Modeo e loschi figuri come il sindaco Cito, con la sua progenie tuttora sulla breccia politica.
Come ha scritto Ornella Bellucci (in: Il mare che non c’è. Come un’industria può divorare una città, a cura di C. Raimo, 2007), “la dilatazione degli appalti e di un indotto parassitario” sono stati “il brodo di coltura dell’inferno degli anni ottanta, della connivenza tra mafia e politica, delle guerre di mala, dell’implosione del sistema delle partecipazioni statali”.
Certo, c’erano stati anni migliori, sul versante del protagonismo e della coscienza operaia, di conseguenza anche su quello delle istituzioni: per dirne una, già nel 1971, la Provincia di Taranto organizzò un convegno importante su inquinamento e salute pubblica. E la fase della riscossa operaia, dal 1969 alla metà degli anni settanta, il ruolo svolto dai consigli di fabbrica, la capacità di saldare le rivendicazioni dei lavoratori garantiti dell’Italsider con quelle dei non garantiti dell’indotto, si riflessero poco più tardi nella famosa Vertenza Taranto, sui temi dell’occupazione e dello sviluppo, che riuscì a coinvolgere non solo l’intero mondo del lavoro ma quasi tutta la società tarantina.
Alcuni giorni fa, in una trasmissione radiofonica, Ferrante, il presidente dell’Ilva –che si è distinta per una gestione talmente dispotica da avere come emblema il confino inoperoso degli operai indocili nelle palazzine Laf, quelle del laminatoio a freddo – ha parlato, non smentito da alcuno, di “uno splendido rapporto con lavoratori e sindacati”. Tuttavia, le “larghe intese” non sono una novità odierna, con forze sindacali e politiche di fatto alleate col padronato e col governo -rappresentato ora da un ministro dell’ambiente affidabile come una volpe nel pollaio- tutti a far pressione, in modo più o meno esplicito, sulla magistratura tarantina, reputata irresponsabile, la quale in realtà è stata la sola a non dare mai tregua al Gruppo Riva, condannato per la prima volta nel 1982 grazie a Franco Sebastio, allora sostituto procuratore.
Già nel 1958 -ricorda Ornella Bianchi (Il diritto dimezzato Diritto al lavoro e diritto alla salute nella città dell’acciaio e della diossina, “Annali della Fondazione G. Di Vittorio”, 2011)- al momento di decidere del polo siderurgico, “si saldò a livello locale, un’ampia intesa tra istituzioni, forze politiche di diverso colore, associazioni imprenditoriali e le stesse organizzazioni sindacali”, solidali nell’ideologia ultra-industrialista, anche se non nell’intera gamma d’interessi. “Non si levò dunque alcuna voce critica, continua Bianchi, contro uno sviluppo ancora una volta artificiale ed eterodiretto, né si espressero dubbi sulla sostenibilità ambientale di una acciaieria così imponente e così a ridosso della città”. Più tardi, “neppure i sindacati condannarono i troppi incidenti che cominciavano a scandire la vita dell’Italsider, assegnandogli il triste primato delle morti sul lavoro”.
Alle elementari si apprendeva che avevamo il privilegio d’essere nate nella capitale della Magna Grecia, la città di Archita, Liside e altri pitagorici, che conserva la più grande collezione al mondo di ori dell’antichità, la città che a quel tempo aveva i primati del primo ponte girevole (inaugurato nel 1887), di uno dei più bei tramonti del Mediterraneo e anche del più importante allevamento di mitili al mondo, poi distrutto dal siderurgico. Intorno alla mitilicoltura, alla pesca e all’agricoltura fioriva una rete di piccole industrie agroalimentari, certo del tutto insufficiente a compensare la disoccupazione crescente, legata alla gravissima crisi economica degli anni cinquanta, provocata dal declino dell’Arsenale Militare e di altri cantieri navali, e dal tracollo dell’indotto delle piccole aziende metalmeccaniche. Ma non era ineluttabile che il destino della molle Tarentum fosse d’essere ingoiata dal mostro avido di sacrifici, partorito dai sogni della coalizione industrialista.
Un mostro che insieme alla città ha divorato non solo antiche masserie, reperti archeologici, un intero arcipelago, distese immense di mare, spiagge, pinete, ma anche un numero abnorme di esseri umani, per non parlare dei non umani. E’ assai dubbio che al punto in cui si è arrivati, cioè della distruzione dell’intero ecosistema, si possa inseguire la chimera di un’acciaieria “compatibile”, come vanno promettendo alcuni, non si sa se in buona fede. E poiché il governo, d’accordo con altri decisori, ha scelto di destinare una somma ingentissima non già alla riconversione produttiva, bensì a un irrealistico “risanamento”, è improbabile che possa risolversi l’antinomia tragica fra il lavoro e la vita.
(3 agosto 2012)
fonte: https://archivio.micromega.net/il-lavoro-o-la-vita-taranto-lilva-e-la-logica-del-profitto/