Il terremoto non discrimina tra cittadini e meteci, tra chi ha la nazionalità italiana e chi è reputato così inferiore che la sua nazionalità è detta “etnia”, se mai distingue tra borghesi e proletari. Colpisce più spesso i secondi, soprattutto se operai costretti dal padrone a lavorare mentre la terra trema e con essa i capannoni mal costruiti. Lo dicono chiaramente le cifre: fra le 24 vittime delle due ondate sismiche 4 erano persone immigrate; fra le 17 della seconda ondata, 12 sono morte sui luoghi di lavoro.
La catastrofi se ne infischiano dei sacri confini padani inventati dalle menti malate di malfattori in camicia verde. Smascherano le retoriche razziste dell’invasione degli alieni praticate da tribuni di ogni risma, compresi quelli a cinque stelle. Smentiscono la leggenda dell’ “estraneità radicale non integrabile” degli islamici propalata dal preteso campione del pensiero liberale, Giovanni Sartori. Mostrano che, sebbene esclusi dalla nazionalità italiana, loro e la loro progenie, i migranti appartengono al nostro stesso paese. Si spaccano la schiena nei capannoni industriali, fanno i turni di notte, lavorano in condizioni estreme nei cantieri edili e nelle campagne del Sud e del Nord, garantiscono la sopravvivenza di molte attività produttive, insomma contribuiscono all’economia italiana con un apporto ben superiore alla loro incidenza demografica. E non solo: i meteci formano famiglie, mandano i figli a scuola, affidano all’Italia il futuro loro e della loro prole.
Tarik Naouch, cittadino marocchino, morto la notte del 20 maggio nel crollo del capannone di una fabbrica di polistirolo, la Ursa di Ponte Rodoni di Bondeno, aveva 29 anni e da sei lavorava in quello stabilimento. Lavorava duro, anche di notte, per poter accogliere degnamente la giovane moglie ancora in Marocco. Era bambino quando approdò in Italia con i genitori da Beni Mellal, una delle regioni più povere del paese, fucina di emigrazione a ciclo continuo fin dagli anni settanta. Nel Belpaese aveva trascorso quasi tutta la sua vita, ma non era cittadino italiano. Eppure doveva sentirsi così responsabile che, dopo essere fuggito dal capannone alle prime scosse, era rientrato in fabbrica per azionare i sistemi di sicurezza, raccontano i suoi compagni, ed è stato allora che un pilone gli è crollato addosso.
Anche Mohamed Arzak, vittima della seconda ondata sismica, era un cittadino marocchino, anch’egli operaio, anch’egli morto durante il turno di notte per il crollo del capannone della fabbrica: la Meta, una ditta di meccanica di precisione, nel polo industriale di San Felice sul Panaro. Aveva 46 anni ed era molto conosciuto a San Felice perché era il responsabile del centro islamico. Qualcuno lo riferisca a Sartori: perfino un alieno così credente da dirigere un centro islamico può essere un buon lavoratore, un onestuomo rispettato e “integrato”.
La seconda vittima del crollo della Meta è Kuman Pawan, 27 anni, indiano del Punjab, che in quella fabbrica lavorava da ben cinque anni. Pur così giovane, aveva a suo carico la moglie e due bambini piccoli. Compagni di lavoro e familiari raccontano che anche lui, come Mohamed, temeva di tornare in quel vecchio capannone insicuro. Ma il padrone aveva preteso che si riprendesse a lavorare, malgrado il rischio enorme che già il primo terremoto aveva mostrato tragicamente. È probabile che Mohamed e Kuman si fossero infine piegati a quell’ordine assurdo per timore di perdere il lavoro. Se si è immigrati, il licenziamento significa perdere non solo occupazione e reddito, ma anche il permesso di soggiorno e quell’avanzamento minimo di status e di sicurezza che esso comporta.
Dell’ultima vittima di nazionalità “straniera” non sappiamo altro se non che si chiamava Li Hongli Zhou, morto a Mirandola mentre cercava di fuggire dal crollo della sua casa.
Oggi i mezzi d’informazione arrivano perfino a chiamare con nome e cognome le vittime “straniere”, a corredare le notizie con qualche cenno alle loro biografie, sottraendole così, per una volta, al magma dell’alterità indistinta in cui di solito annegano l’individualità dei migranti. Quando l’attenzione e la commozione si saranno spente, torneranno a parlare di “extracomunitari”, “clandestini”, “individui di etnia cinese”, “delinquenti di etnia latino-americana” (cito alla lettera). Noi, invece, dovremmo far tesoro della lezione che la catastrofe ci consegna: i meteci – inclusi nell’economia, ma esclusi da diritti civili e politici, perfino da alcuni diritti sociali – sono parte integrante della classe operaia, così negletta eppure così indispensabile e valorosa. Per ricompattare la classe, come si diceva un tempo, e renderla capace di resistere agli assalti della crisi, alle politiche di austerità e ai loro dissennati gestori, occorre battersi non solo contro il progetto di seppellire l’articolo 18 e altri diritti fondamentali, ma anche affinché i meteci possano diventare cittadini a pieno titolo: almeno sulla carta, per cominciare.
Intanto conviene rilanciare la più realistica rivendicazione del Coordinamento Migranti di Bologna e provincia: ai cittadini immigrati sia garantito il rinnovo del permesso e della carta di soggiorno, anche se nei prossimi due anni non potranno soddisfare i criteri di lavoro, reddito, abitazione previsti dalla legge; la tassa per il rinnovo del permesso sia sospesa per i prossimi due anni; sia assicurato trattamento uguale nei soccorsi e nell’assistenza, a prescindere dalla regolarità del soggiorno.
Fonte: https://archiviopubblico.ilmanifesto.it/Articolo/2003198397