È come ai tempi del Cavaliere: ogni giorno ha la sua pena, ogni giorno ci riserva qualche aforisma governativo disperante. Solo lo stile è cambiato: delle grezze facezie berlusconiane si poteva ridere, le battute dei “professori” fanno soltanto piangere. E non solo per la monotonia del contenuto: cioè la minaccia di far pagare lacrime e sangue ai lavoratori, ai precari, ai non abbienti, la prospettiva di una drastica riduzione di diritti e tutele sociali; in sostanza, un impietoso progetto ultraliberista. Avvilente è anche il ricorso alla banalità, al luogo comune, al lessico trasandato, al registro dei semicolti, proposti con una singolare boria classista e, come giustamente ha osservato Ida Dominijanni, perfino con un’irritante pretesa pedagogica.
Se la memoria non c’inganna, iniziò la ministra Fornero con «l’articolo 18 non è un totem», lapsus dovuto forse alla familiarità con l’opera di Freud, quindi con Totem e tabù. Seguì l’ormai citatissimo aforisma del submnistro Martone che, invece, non deve aver mai letto neanche Lettera a una professoressa, sicché lui, baciato dalla fortuna di un padre potente, vorrebbe rimandare tutti gli sfigati alle scuole professionali. Un paio di giorni fa è stata la ministra Cancellieri a regalarci un motto che passerà alla storia: «Noi italiani siamo fermi al posto fisso nella stessa città di fianco a mamma e papà». Ma prima c’era stato «la monotonia del posto fisso» del premier in persona il quale, non soddisfatto, infine ha pronunciato anche il lemma fatale: buonismo. Ed è su questo che vogliamo soffermarci, poiché sintetizza efficacemente la “filosofia”, lo stile, la semicultura dei “professori”.
Benché ora legittimata dal presidente del consiglio, “buonismo” è stata e resta la parola-chiave del disprezzo per chi esprime e pratica solidarietà, del dileggio di chi difende i diritti fondamentali altrui. Abbiamo un’immaginazione sfrenata e nutriamo una certa diffidenza, come si è capito, verso il governo tecnico. Eppure non ci aspettavamo una concessione, così inelegante, al lessico della superficialità e della cattiveria sociale. Un professore, ancorché capo di governo, dovrebbe essere cauto con le parole, tanto più se ne conosce la storia e gli usi sociali. Dovrebbe sapere che “buonismo” è lemma cruciale della retorica dell’intolleranza. Che è il neologismo con cui, da un quindicennio a questa parte, si è soliti bollare i discorsi solidali e le politiche inclusive verso migranti e minoranze. Probabilmente Monti ignora che buonista è vocabolo apparentato con pietista: cioè con l’accusa rivolta, durante il fascismo, contro quegli italiani che, dopo l’approvazione delle leggi antiebraiche, cercarono di difendere e proteggere i loro concittadini ebrei.
Sprezzante o forse ignaro della sociolinguistica, il premier non solo adopera quel termine spregiativo, ma, accoppiandolo con “sociale”, ne allarga il campo semantico per colpevolizzare venticinque governi del passato e l’intera società italiana: «Per decenni i governi italiani hanno avuto troppo cuore, hanno profuso troppo buonismo sociale». E, per non essere frainteso, rincara la dose: «La società italiana si appagava del fatto d’essere così generosa, così buona verso i deboli». Che delitto aver talvolta preso sul serio la Costituzione! Che dabbenaggine aver tentato di rispettarne il terzo articolo! Quello che recita – ci permettiamo di ricordarlo rispettosamente al professore – «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
In un ottimo elzeviro di quattro anni fa, Gian Antonio Stella definiva lo slogan «basta col buonismo» come «il nuovo manganello» per colpire «i richiami alle norme costituzionali e anche all’umana pietà»; come «il nuovo olio di ricino dello squadrismo mediatico shakerato con un po’ di analfabetismo civile». Sarebbe eccessivo definire alla stessa maniera la variante montiana dello slogan. Nondimeno è preoccupante che le più recenti sortite dei professori al governo siano marcate da una tale arroganza di classe, da un tale disprezzo per la sorte della “gente comune”, nonché da uno stile in fondo autoritario.
Peraltro, come ogni superficiale esercizio di stigmatizzazione, anche l’accusa di buonismo è reversibile. Nello stesso contesto, il capo del governo ammette candidamente: «Non abbiamo usato il termine patrimoniale perché avrebbe potuto urtare una parte di questa maggioranza». Se “buonismo” è pretendere di accontentare tutti, come egli stesso afferma più avanti, lui sì che è un vero buonista, si potrebbe commentare. Certo, buonista verso i potenti, cattivista verso i deboli. Davvero un bel programma di governo.
Fonte: https://archiviopubblico.ilmanifesto.it/Articolo/2003193436