«In fondo che ne sappiamo, di queste rivolte?», obietta l’amico, un vecchio compagno di solito ben orientato. «Come andranno a finire? Non scordiamoci dell’Iran e dell’abbaglio che prendemmo allora! Forse è meglio la stabilità attuale, per quanto non ci piaccia, che il rischio del caos e dell’islamismo». Replico con ogni argomentazione possibile, gli oppongo dati e analisi. Obietto che non tutte le insurrezioni sono finite in modo disastroso, che in Spagna, in Portogallo, in certi paesi dell’America Latina in fondo non è andata troppo male. Concludo che comunque ogni popolo ha diritto alla ribellione e che non si può preferire la dittatura, la repressione, l’ingiustizia al disordine. Niente da fare: rimane saldamente aggrappato ai suoi pregiudizi e alle sue paure.
È la sera del 6 febbraio. Ho appena saputo del rogo che ha ucciso quattro bambini rom, nella miserrima baraccopoli romana in fondo all’Appia Nuova. Attendo invano segnali di vita da almeno una delle tante mailing list antirazziste. Poi decido di telefonare a qualche attivista. È domenica: lì per lì cade dalle nuvole, ignorava la notizia. L’indomani mattina presto, ugualmente, tutto tace. La morte atroce delle quattro creature per il momento sembra non avere eco nel movimento antirazzista. Per fortuna verso la fine della mattinata i segnali arrivano.
Obiezione scontata: che c’entra la rivoluzione araba, o comunque la si voglia chiamare, con la morte dei piccoli rom? Risposta altrettanto scontata: la prima e la seconda reazione sono dettate dall’indifferenza. Ma la spiegazione è insufficiente, non coglie la radice dell’analogia. E poi sarebbe davvero ingiusto sostenere che gli attivisti antirazzisti siano di solito indifferenti. Forse c’è qualcosa di più profondo che le lega: forse è la tendenza a rimuovere la sofferenza altrui, ad allontanare i corpi e la loro vulnerabilità. Così che quando la politica s’incarna in esseri umani uccisi dalla discriminazione e dal pregiudizio o spinti alla rivolta da un’oppressione intollerabile, incisa nelle loro vite, la prima reazione difensiva può essere l’esitazione e l’imbarazzo, nel primo caso, il cinismo travestito da realismo politico, nel secondo. L’uno e l’altro riflesso avranno qualcosa a che fare con la troppo citata morte del desiderio e la depressione collettiva conseguente, ovvero con l’umore nazionale prevalente? Penso proprio di sì. L’infelice paese nel quale ci è dato vivere rischia di diventare un deserto in cui si aggirano morti viventi che non sanno di essere morti. Hanno smesso di desiderare il cambiamento, cioè la vita. Non sanno più immaginare ed emozionarsi, perciò restano abbarbicati alla fragile certezza della loro vita fittizia. Ci vorrebbe qualche pazzo desiderante come Mohammed Bouazizi, fra quelli di noi ancora in vita. Non auspico un suicidio, ovviamente, ma un gesto politico collettivo: tale in fondo è stato quello del piccolo ambulante tunisino che, immolandosi col fuoco, ha acceso la miccia della rivolta. Un atto che d’improvviso accendesse la luce del desiderio di un altro paese possibile. Dove i bambini rom non siano uccisi dai roghi dell’apartheid, i lavoratori non siano decimati dallo sfruttamento, le donne non siano massacrate dal delirio maschile e il despota sia costretto ad andare in pensione con la sua corte di nani e ballerine.
Fonte: https://archiviopubblico.ilmanifesto.it/Articolo/2003177535