Mohammad Muzaffar Alì, detto Sher Khan, in Pakistan non era un marginale, ma un capopopolo, un oppositore politico istruito, e stimato quanto perseguitato. In Italia, Mohammad Muzaffar Alì era solo Sher Khan. Da Sher Khan «aveva fatto la Pantanella», come si dice, cioè aveva partecipato alle prime lotte per i diritti dei migranti. Da Sher Khan aveva incontrato Luigi Di Liegro e Dino Frisullo e da loro era stato rispettato e protetto. Aveva poi partecipato a ogni corteo, lotta, occupazione di case, lui che una casa non l’avrebbe mai avuta e sarebbe morto di sconforto e di freddo su un marciapiede di Piazza Vittorio. Era un ribelle nato, Sher Khan, perciò un rompiscatole, perciò destinato a frequentare prigioni e lager per migranti. Uno senza casa, senza lavoro, senza status legale, che va e viene da luoghi di detenzione prima o poi si ammala e magari finisce alcolizzato. Negli ultimi tempi Sher Khan beveva più del normale ed era gravemente malato. Ma continuava a lottare caparbiamente. Perfino nel corso dell’ultimo soggiorno a Ponte Galeria si era dato da fare: aveva organizzato un’assemblea e uno sciopero della fame, e li aveva resi pubblici. Perfino quelli che lo conoscevano bene mai si sarebbero aspettati che finisse morto assiderato dalle parti di Piazza Vittorio, appena uscito da Ponte Galeria. Come Joseph Roth nella Parigi degli anni Trenta. Ma forse gli anni Trenta sono tornati senza che ce ne accorgessimo.
Chiediamoci tutti, e non retoricamente, che razza di paese sia quello che riserva un tale trattamento a un perseguitato politico, oltre tutto bisognoso di cure. Che città sia quella che lascia che migranti, marginali e poveri muoiano per strada di freddo. Che sinistra sia, soprattutto quella istituzionale, che non riesce a prestare aiuto e solidarietà concreti a un compagno come Sher Khan. E infine che antirazzismo sia quello che, sì, magari ancora è capace di organizzare qualche protesta e di assicurare a questo o a quello la tutela di qualche legale. Ma spesso dimentica che tutti, anche quelli come Sher Khan, hanno bisogno di nutrirsi e di essere curati, di dormire al caldo e di essere consolati, perfino coccolati se sono appena usciti dall’incubo di Ponte Galeria. No, non basta invocare la barbarie in cui è precipitato il Paese. Forse anche noi siamo parte della barbarie e perciò nessuno può credersi assolto.
Fonte: https://archiviopubblico.ilmanifesto.it/Articolo/2003157735