«Solo più tardi, come militante della classe operaia nel Mezzogiorno d’Italia, mi resi conto che il ‘naturalismo’ della etnologia tradizionale si legava al carattere stesso della società borghese, che fra le condizioni di esistenza, per es. dei braccianti delle Murge e l’inerzia storiografica delle scritture etnologiche e folkloristiche vi era una connessione organica»: così scriveva Ernesto de Martino in un articolo del 1949, titolato «Intorno a una storia del mondo popolare subalterno». Il passo, fra i più citati, anticipa quello che sarà il tratto più saliente della sua biografia intellettuale, della sua ricerca, della scrittura: l’articolazione dell’analisi e della riflessione teorica con l’impegno civile e politico. Che non è solo l’ovvio corollario di uno studioso politicamente schierato, ma è anche una tra le condizioni della sua stessa etnografia, la quale, per non rimanere «inerte storiograficamente», deve farsi attraversare dalle «umane, dimenticate istorie» di quei subalterni per eccellenza che erano i contadini e i braccianti meridionali.
A de Martino interessava cambiare non solo il mondo, ma anche le sue rappresentazioni, e dunque il sapere dei folcloristi e degli etnologi. Quanto al tarantismo, che avrebbe indagato un decennio più tardi, intendeva sottrarlo alle interpretazioni di stampo positivista che l’avevano naturalizzato, per l’appunto, riducendolo a terapia magica creduta atta a curare i sintomi di una patologia reale, indotta dal morso di un aracnide velenoso, la taranta.
Appunti dal Salento
De Martino, invece, sulla base dell’osservazione diretta e di una vasta documentazione storico-etnografica, raccolta con un’équipe interdisciplinare, depatologizzò il tarantismo, ne dimostrò l’autonomia simbolica, lo interpretò come istituto culturale che rifletteva ben altri disagi individuali e collettivi, riconducibili, in definitiva, alla mancata rivoluzione borghese nel sud e dunque a un limite di egemonia culturale. Come altri sincretismi popolari, il tarantismo era, per lui, espressione della storica subalternità delle plebi rurali, ma anche testimonianza del limite di espansione della cultura dominante e della resistenza opposta dai gruppi subalterni alle forme culturali e religiose ufficiali.
Nel corso della «spedizione» nel Salento – scrive de Martino – «io entravo nelle case dei contadini pugliesi come un ‘compagno’, come un cercatore di uomini e di umane dimenticate istorie, che al tempo stesso spia e controlla la sua propria umanità, e che vuol rendersi partecipe, insieme agli uomini incontrati, della fondazione di un mondo migliore, in cui migliori saremmo diventati tutti, io che cercavo e loro che ritrovavo».
La sua etnografia, quindi, non poteva che essere dialogica e riflessiva, per usare aggettivi che solo alcuni decenni più tardi sarebbero entrati nel lessico antropologico, essendo stato pioniere di un metodo di ricerca – del quale oggi si parla molto – che predilige l’empatia. L’intensità con la quale visse la «pungente esperienza dello scandalo sollevato dall’incontro con umanità cifrate», unita alla consapevolezza che «senza il pathos del rimorso e della colpa davanti al fratello separato», non vi è possibilità alcuna d’incontro con gli «zulu e beduini» (così erano detti i proletari agricoli del Sud) si riflettono nella sua ricerca di campo, nei resoconti etnografici, nella scrittura in prima persona – in quegli anni del tutto atipica, perfino eccentrica. De Martino, insomma, ci ha lasciato una lezione epistemologica del tutto anticipatrice: il soggetto epistemico è anche un soggetto affettivo. L’intera sua opera è attraversata da temi e inflessioni anticipatrici di quella etnografia riflessiva che oggi è ritenuta l’unica possibile, e che implica la valorizzazione della dialettica soggetto-oggetto della ricerca, la consapevolezza dell’ineliminabilità della soggettività del ricercatore e delle sue passioni, la proposta di una epoché metodologica delle categorie che gli sono familiari, per diventare «l’etnologo di se stesso».
Una speciale temperie storica
La terra del rimorso – tessera fondamentale della sua teoria del sacro, che si delinea a partire dal Mondo magico – è concepita come contributo molecolare (un termine molto gramsciano) alla storia religiosa del sud, «nella prospettiva di una nuova dimensione della quistione meridionale». Per De Martino il tarantismo – per meglio dire, i «logori relitti salentini» di ciò che era stato un istituto mitico-rituale – è espressione, per quanto minuta e locale, di un dramma universale, metafora dei tanti Sud che cercano di entrare nella storia: «la terra del rimorso è il nostro stesso pianeta, o almeno quella parte di esso che è entrata nel cono d’ombra del cattivo passato». Perciò ha un che di paradossale il recente ingresso imperioso del tarantismo nella cultura di massa, con la conseguente conversione in patrimonio delle tradizioni musicali salentine: questo fenomeno, nato come locale e identitario, poi consolidatosi in forma durevole e pressoché nazionale di consumo culturale, muove, infatti, dalla riscoperta di un tarantismo per lo più deproblematizzato e destoricizzato, talvolta anche desimbolizzato.
La ricerca e la riflessione di de Martino furono il frutto di una maturazione intellettuale che, dall’originaria formazione crociana, lo condussero poi ad aprirsi al pensiero gramsciano e alle più avanzate correnti europee della psicologia, della psichiatria, della fenomenologia. Ma la qualità delle sue ricerche è anche figlia di una temperie storica peculiare: erano anni di importanti lotte contadine e operaie, della grande speranza del riscatto del Mezzogiorno, dell’impetuoso movimento bracciantile di occupazione delle terre, che sarebbe poi stato represso con eccidi e arresti di massa. Del resto, anche i grandi eventi che si svolgevano sulla scena internazionale avevano una impronta contadina: l’offensiva dei vietcong contro i colonialisti francesi, il processo di emancipazione dei popoli colonizzati, la proclamazione della Repubblica popolare cinese… È questo il contesto al quale erano legati certi motivi di de Martino: il concetto di «folclore progressivo» (uno dei meno attuali della sua riflessione); il tema dell’«irruzione nella storia» del mondo popolare subalterno, inteso come «l’insieme dei popoli coloniali o semicoloniali, e del proletariato operaio e contadino delle nazioni egemoniche». È in questa temperie che va iscritta la convinzione del grande antropologo secondo cui la persistenza dei sincretismi pagano-cristiani, fra i quali il tarantismo, che intendeva come determinata da ragioni storiche e congiunturali (l’irrisolto conflitto fra mondo cristiano e mondo pagano, la miseria economica e culturale, la subalternità sociale), avrebbe potuto avere soluzione di continuità grazie all’irruzione nella storia delle plebi meridionali.
Se punti deboli sono presenti nel suo pensiero, risiedono in un eurocentrismo che non sarebbe mai riuscito davvero a trascendere e nella costante oscillazione fra la nostalgia del senso e della pregnanza culturale delle forme ‘arcaiche’ e la convinzione che, essendo esse espressione di miseria sociale e culturale, fossero destinate ad essere superate. È questo secondo polo che oggi appare meno convincente. In realtà l’«arcaico» non è stato affatto superato dall’avanzare della «civiltà», sul piano culturale come su quello economico e sociale: se c’è un tratto che connota i nostri anni è il recupero e la risemantizzazione dell’«arcaico» e dell’esotico, l’intreccio fra tradizione e modernità, la compresenza dei più disparati livelli di rapporti di produzione, dal feudale al postfordista. Un tema, questo, che lo stesso De Martino aveva abbozzato in Furore, simbolo, valore e sviluppato negli appunti poi raccolti nell’opera postuma, La fine del mondo, dove aveva fittamente commentato la crisi della razionalità e dell’ethos occidentali, senza essere mai capace, tuttavia, di rinunciare al presupposto secondo il quale il primato culturale sarebbe spettato alla civiltà occidentale. Perciò, la Rabata di Tricarico – il quartiere derelitto descritto nelle «Note lucane» di Furore, simbolo, valore – potrebbe essere assunta a metafora potente delle ‘rabate’ disseminate nel mondo globalizzato: per esempio, le bidonville dove nell’Italia del sud sono costretti ad alloggiare i braccianti immigrati stagionali, in gran parte «clandestini». I contadini di Tricarico possono riapparirci così nelle sembianze dei braccianti stagionali di Cassibile, di Castel Volturno di Rosarno o del Tavoliere.
Al tempo di de Martino, i contadini rabatani «più avanzati» avevano adibito a luogo di culto della chiesa battista «l’unica stanza oscura e fumosa» della dimora miserabile di uno di loro. Un paio di anni fa, i braccianti maghrebini di Cassibile dopo la distruzione della loro bidonville nel corso di uno dei tanti pogrom di oggi (spesso preceduti da leggende ‘arcaiche’, come quella degli zingari rapitori di bambini) hanno ricostruito, come prima cosa, un simulacro di moschea – un rettangolo di pietre con fogli di cartone per pavimento – dotandolo di un mihrab rudimentale ma correttamente orientato verso la direzione della Mecca. Pur condannati a regimi d’esistenza al limite dell’umano, gli uni e gli altri coltivano «costumi e ideologie che formano civiltà e storia». Per i contadini lucani, l’adesione alla comunità battista era stata una forma di protesta verso la chiesa cattolica, «alleata con i ricchi e con gli oppressori», e l’aspirazione a coltivare una religiosità evangelica e socialista. Per i braccianti maghrebini, il simulacro della moschea è un mezzo per salvaguardare e affermare la propria umanità, e per sventare il rischio della crisi della presenza, sottraendo una parte di sé al regime della merce e alla cultura razzista e deumanizzante del paese in cui approdano.
Dal versante simbolico
Dunque, l’opera di de Martino potrebbe ancora suggerirci qualche spunto per la lettura del presente. Il proletariato agricolo non è scomparso ma è stato ricostituito da braccianti stranieri, ugualmente stigmatizzati come superstiziosi, arretrati, inferiori. Pur in un contesto strutturale assai diverso, gli stagionali stranieri massicciamente sfruttati nelle campagne del sud d’Italia sono soggetti a condizioni di lavoro e di vita comparabili, se non peggiori, di quelle dei braccianti autoctoni fino agli anni ’60: sottoposti al caporalato, obbligati a lavorare da sole a sole, spesso pagati a cottimo, costretti a dormire in alloggi di fortuna, ridotti a una condizione servile o addirittura di schiavitù. Si potrebbe indagare se alle vecchie forme magico-religiose sincretiche, legate al lavoro agricolo, non vadano sostituendosi altre forme ritualizzate di resistenza ugualmente sincretiche, pescate dalla memoria della propria tradizione ma adattate al contesto presente. Sarebbe un modo per chiedersi se questa condizione sociale non possa essere colta anche dal versante delle pratiche simboliche, e se queste non ci dicano qualcosa di interessante circa il modo in cui non soltanto si vive la propria appartenenza sociale ma la si trascende.
Fonte: https://archiviopubblico.ilmanifesto.it/Articolo/2003139708