«Possibile che le forze dell’ordine arrivano sempre dopo i rapimenti ma prima dei linciaggi? Perché la gente non fa mai in tempo a scuoiarne uno?», con questa domanda retorica il 22 agosto un lettore di excite.it commentava la notizia di una aggressione ai danni di persone immigrate o rom, a seguito della solita falsa accusa di rapimento di bambini. Più pensoso, un altro lettore, del corriere.it, il 14 settembre così chiosava l’omicidio razzista di Milano: «Se piove si accetta, se grandina si ha pazienza, ma quando arriva la tempesta e gente da ogni dove e giustamente vuol soddisfare i propri bisogni, qualcuno si difende da solo».
«Se non c’è nessuno che provvede per lui, come durante una tempesta». Non va meglio se, abbandonato il pattume dei commenti in rete, passiamo al giornalismo mainstream . La prima cronaca che repubblica.it ha dedicato alla strage di Castel Volturno recava nel titolo e nel sottotitolo le parolechiave «scontro a fuoco» e «clan degli immigrati». Se proprio si è costretti a dar conto d’una mattanza di sporchi negri deve aver «ragionato» l’estensore del pezzo o chi lo ha titolato – almeno si aggiunga che le vittime se la sono cercata. Oggi che i magistrati ipotizzano «un’aggressione terroristica a tutti gli effetti, una sorta di caccia al nero, una strage di persone apparentemente estranee a ogni propensione criminale e tutte accomunate dal solo colore della pelle», nessuno si scusa per la gaffe clamorosa. I tre esempi bastano da soli a dare un’idea dell’abisso in cui è caduto il Belpaese. Non c’è solo il dato, pur atroce, di un razzismo che in quattro giorni uccide sette persone d’origine immigrata. C’è anche un certo consenso sociale, che si esprima apertamente o che venga dato col silenzio e l’indifferenza. Se i lettori dei notiziari on line possono ostentare un cinismo da Ku Klux Klan e l’estensore della cronaca di repubblica.it dare per scontato che una strage di lavoratori immigrati non sia che uno scontro a fuoco fra clan camorristici rivali, allora siamo nella più classica situazione razzista. Non c’è bisogno di evocare l’Alabama o certi paesi europei sul finire dell’Ottocento oppure gli anni venti dell’Europa smarrita e in crisi. Più sobriamente si può dire che in Italia si è determinata la saldatura fra il razzismo di stato e il razzismo popolare, a sua volta resa possibile dal ruolo decisivo giocato dai mass media . La politica ufficiale ne ha solo da guadagnare: quella saldatura permette di deviare il disagio e il risentimento popolari verso i soliti facili capri espiatori e di espellere la forza-lavoro eccedente, rendendo ancora più docile e ricattabile quella che resta. È il compimento di un lungo ciclo di riemersione e legittimazione del razzismo latente, iniziato, se non nel 1989 con l’omicidio di Jerry Masslo, almeno nel 1991, quando ai profughi albanesi sbarcati nel porto di Bari e segregati nello stadio fu riservato un trattamento alla cilena. Esso ha visto una tappa importante durante l’ultimo governo di centro-sinistra, quando sindaci democratici e membri del governo diedero fiato alle trombe dell’allarmismo e delle campagne sicuritarie, senza peraltro essere capaci di approvare una sola norma in difesa dei diritti dei migranti. Oggi i migliori fra quegli apprendisti-stregoni, per dare un nome a ciò che non avevano previsto né hanno collocato ai primi posti della loro agenda politica, non sanno che cianciare di «guerra fra poveri»: i pogrom , le aggressioni e gli omicidi razzisti non possono essere definiti tali, essendo «le masse» buone per definizione.
Non bisogna farsi illusioni: l’allarmante accelerazione che il governo di destra ha impresso al ciclo del razzismo, nel contesto di una torsione sempre più autoritaria, non troveranno subito a sinistra una risposta adeguata. E tuttavia il corteo di Milano dopo l’assassinio di Abba e le tante pur esili risposte antirazziste fiorite ovunque sono segni di un certo risveglio delle coscienze, se non della politica. Nello stesso giorno, il 4 ottobre, due diversi cartelli antirazzisti hanno promosso, rispettivamente a Caserta e a Roma, due cortei nazionali. Certo, sarebbe stato saggio unificarli. Ma in tempi di vacche magre non c’è da storcere il naso, c’è solo da partecipare.
Fonte: https://archiviopubblico.ilmanifesto.it/Articolo/2003135135