Si dice: sulla débacle elettorale ha pesato la delusione per la fallimentare esperienza di governo. E’ inconfutabile. Ma si dovrebbe precisare che, oltre ai risultati nulli, ciò che ha irritato militanti e elettori di Rc è stato lo stile adottato per giustificare il voto sull’Afghanistan o sul pacchetto sicurezza, per dirne solo due: non l’aperta ammissione delle difficoltà e dei compromessi subiti, e l’invito a discuterne, ma il ricorso all’eufemismo, alla menzogna, alla demonizzazione dei «dissidenti». Un errore imperdonabile di arroganza e goffaggine: nell’epoca della comunicazione globale non ci si può comportare come ai tempi di Stalin o di Togliatti, come se l’unica fonte d’informazione fosse la voce ufficiale del partito.
Inoltre, negli anni più recenti l’immagine pubblica più mediatizzata del «rinnovamento» di Rc ha finito talvolta per essere un mélange di stili e frammenti culturali: una specie di New age, in cui potevano trovare posto tutto e il suo opposto, comprese una certa mondanità e una spiritualità ibrida e superficiale. Se i simboli e i messaggi contano qualcosa, come pretendere che le «larghe masse» potessero identificarsi con un tale stile e con contenuti così pasticciati, o solo estrapolarne qualche messaggio comprensibile, adeguato alle loro condizioni, bisogni, aspirazioni? E’ anche a tutto ciò che è connesso il deficit di comprensione e di analisi dei cambiamenti avvenuti nella società italiana.
A commento dell’imprevisto successo della Lega, per esempio, ci si è domandati, con stupore e angoscia, perché mai la classe operaia del Nord abbia dato fiducia al partito xenofobo. E’ un lapsus rivelatore: si dimentica che la classe operaia non-bianca, parte cospicua della manodopera del sistema produttivo del Nord, non ha diritto di voto. E’ un lapsus che conferma che in Italia l’immigrazione – vecchia ormai di un trentennio – non è ancora riconosciuta come componente strutturale dell’economia e della società, neppure a sinistra. Che anche coloro che si richiamano a una politica «di classe» dimentichino che la classe operaia comprende un gran numero di lavoratori meteci, inclusi economicamente ma esclusi da diritti civili, sociali e politici, è segno di miopia e di ritardo su un modello che da qualche decennio non corrisponde più alla realtà: per la prima volta nella storia italiana, almeno del dopoguerra, una parte della classe operaia è costituita da non-cittadini, da meteci. Come i meteci della Grecia antica, tanto indispensabili all’economia, tanto utili per la loro flessibilità e capacità di adattamento quanto deprecati dal punto di vista morale. E, inoltre, tanto banalizzati dalle retoriche mediatiche e politiche quando muoiono in incidenti sul lavoro quanto simbolicamente crocifissi se compiono anche il più lieve reato o infrazione.
Allora, forse, bisognerebbe chiedersi: come mai il principale imprenditore politico della xenofobia miete successi là dove la classe operaia è costituita da un numero quasi pari di cittadini e meteci? Non sono questa frattura e questa discriminazione a rendere possibile l’identificazione di un buon numero di lavoratori bianchi con un partito xenofobo? Fra le tante cause complesse che si possono invocare per spiegare questo successo, una, lapalissiana, non va trascurata: forse gli operai votano Lega anche perché è un partito xenofobo, che promette di difendere i loro interessi contro quelli dei meteci. Non sarebbe certo la prima volta nella storia che lavoratori autoctoni si fanno interpreti attivi delle campagne xenofobe contro gli ultimi arrivati o contro i «nemici interni». In tal senso, forse, per cominciare a abbozzare qualche analisi adeguata alle trasformazioni della globalizzazione neoliberista, non bisognerebbe archiviare la lezione del Novecento, anzi partire dalla fine dell’Ottocento, epoca di sanguinosi pogrom di operai autoctoni contro operai stranieri. «Stare nel sociale» e imparare da esso, ma anche meditare, con umiltà e pazienza, su ciò che altri hanno scritto: è da qui che si può ripartire per un tentativo di ricostruzione della sinistra.
Fonte: https://archiviopubblico.ilmanifesto.it/Articolo/2003127623