Cpt, gli eufemismi che velano gli orrori

S e si volesse tracciare una storia dei Cpt, sarebbe opportuno ripercorrerla fin dagli esordi, per comprendere come e perché sia nato questo mostro giuridico, inedito nella storia della repubblica italiana fino al 1998, quando venne istituito dalla legge detta Turco-Napolitano. In questa sede ci limitiamo a ricostruire un frammento della sua storia semantica, per gli anni che vanno dal 1998 al 2000. Decostruire le parole per svelarne gli inganni è un utile esercizio critico. La manipolazione e il controllo sul linguaggio sono infatti perno centrale dei dispositivi che, dopo aver creato categorie di indesiderabili, rendono socialmente accettabile la loro segregazione in spazi speciali, sottratti al diritto ordinario: fra questi, i Cpt, sigla italiana di quelle strutture quasi-concentrazionarie, per dirla con Etienne Balibar che, previste dagli accordi di Schengen, sono divenute un sistema che con nomi diversi ricopre l’intero territorio europeo. I Centri di permanenza temporanea e assistenza sono figli di un imbarazzo linguistico che lascia trapelare cattiva coscienza, o almeno disagio politico. Perché mai, infatti, invece di definirli per ciò che sono, cioè centri di detenzione o campi di reclusione, si è ricorso a un goffo stratagemma semantico? Perché chi li ha concepiti sa bene che in uno stato di diritto è possibile comminare una pena detentiva solo a chi sia stato definitivamente condannato per un certo reato penale; e sa bene che, comunque, ogni forma di limitazione della libertà personale deve essere conseguente a un atto giudiziario. E invece, per una speciale categoria di individui, e in base al loro semplice status di «irregolari», «clandestini», richiedenti asilo, si deroga dallo stato di diritto e dalla Costituzione privandoli della libertà personale per un fine diverso dalla repressione di reati: l’irregolarità o la «clandestinità» sono semplici infrazioni amministrative. La storia dei Cpt è dunque anche storia di un rapporto di potere linguistico: un atto di arroganza semantica, una prova di forza che violenta il comune senso del diritto e della lingua mascherandosi dietro la subdola strategia dell’ eufemismo , «una figura retorica che consiste nel sostituire parole sgradevoli o crude con altre di significato attenuato», come dicono i dizionari.

Ai tempi del Terzo Reich

Bisogna guardarsi dagli eufemismi. L’eufemismo menzognero era alla base della novlingua in uso nel Terzo Reich: l’antisemitismo era detto «dottrina razziale», le camere a gas «installazioni speciali», il genocidio «soluzione finale». Da un eufemismo, i «campi di custodia protettiva», si svilupparono i campi di concentramento e quelli di sterminio. Gli internati vi erano accolti da uno slogan che suonava come un eufemismo derisorio: «Il lavoro rende liberi». Nel caso dei Cpt, l’eufemismo è rafforzato dall’ossimoro, un’altra figura retorica che consiste nell’accoppiare logicamente due parole dal significato opposto o contraddittorio: permanenza temporanea . «Permanenza» è la qualità di ciò che permane, ma significa anche soggiorno in un certo luogo: «buona permanenza» si augura a chi è giunto in un località di vacanza. Ma anche chi ha concepito la legge detta Turco-Napolitano fu colto dal sospetto che i Cpt non potessero essere luoghi di vacanza: non proprio carceri, certo, ma neppure alberghi, come ebbe a dire più tardi un ministro di centrosinistra. L’eufemismo ossimorico che li designa, a onor del vero, non è elegantissimo. Se a un ospite auguraste «buona permanenza temporanea», se ne avrebbe a male pensando che volete liberarvene quanto prima. Ma dai Cpt non si esce tanto presto (si era costretti a permanere fino a un mese, oggi fino a due mesi, grazie alle migliorie della Bossi-Fini) e neppure quando si vuole: se chi è stato condotto lì si accorge che quella permanenza non fa per lui/lei o che non ha bisogno di assistenza, non è che può dire «me ne vado». A convincerlo a restare ci sono poliziotti, sbarre, cancelli, gabbie, manganellate. E se qualcuno si ostina a prendere alla lettera l’eufemismo e riesce ad andarsene, non lo trattano come un ospite scortese che rifiuta l’ospitalità ma come un mafioso evaso da un carcere di massima sicurezza. Una volta riacciuffato, il trattamento non è quello che si riserva agli ospiti, per quanto villani: un certo don Cesare Lodeserto, direttore di uno di questi nonluoghi, il «Regina Pacis», deve aver esagerato in sgarberia se i giudici gli hanno fatto provare il carcere, quello propriamente detto.

Dai Cpt non si va e viene a piacimento. Può accadere che le porte siano chiuse dall’esterno anche quando uno è agonizzante e i suoi compagni di permanenza disperatamente gridano aiuto. Così, forse imbottito di psicofarmaci, la notte di Natale del 1999 morì nel centro di Ponte Galeria Mohammed Ben Said. La mandibola fratturata, forse a causa del trattamento ricevuto in carcere, per giorni e giorni aveva reclamato cure mediche mai ricevute; per giorni e giorni aveva gridato, non creduto da alcuno, d’essere sposato con una cittadina italiana e che dunque non può essere sottoposta ad espulsione. Dopo la sua morte, qualcuno lo trovò, quel certificato di matrimonio.

Ben Said non fu il primo a morire di Cpt. Il 1° agosto del 1998 Abedeleh Saber era morto nel carcere di Agrigento, dove era stato tradotto dopo una rivolta nel centro di Lampedusa: anch’egli, si disse, vi aveva subito una massiccia soministrazione di tranquillanti. Può accadere che le porte siano sbarrate dall’esterno anche quando scoppia un incendio e gli «ospiti» rischiano di bruciare vivi: così morirono tre ragazzi maghrebini nel Cpt «Serraino Vulpitta», un ex-ospizio di Palermo, la notte fra il 28 e il 29 dicembre di quel tragico 1999. Altri due sarebbero morti qualche giorno dopo in ospedale; l’ultimo dei sei avrebbe smesso di respirare dopo due mesi e mezzo di agonia.

Ospiti, o trattenuti

Ma ritorniamo all’eufemismo. Dal caos di una specie di archivio salta fuori un dépliant colorato, ben fatto, che reclamizza, per conto del governo dell’epoca, una merce speciale: la legge 40 del 1998, appunto. Vi si illustra anche l’articolo che istituisce i Cpt. Come vengono definiti i reclusi? Ospiti, naturalmente. «Ospiti» -o «trattenuti» – essi sono anche per un altro documento che ci è restituito da quel caos cartaceo. Il periodo è lo stesso: 13 ottobre 1998; il linguaggio, più burocratico, non rinuncia all’eufemismo, che si tinge di qualche venatura tetra. E’ una circolare del ministero dell’Interno, firmata da un certo sottosegretario e indirizzata, fra gli altri, ai prefetti di cinque città. Vi sono allegate le linee-guida delle «caratteristiche tecnico-strutturali» dei Cpt, elaborate da un apposito gruppo di lavoro: «dovrebbero essere previsti ampi spazi aperti destinati all’attività ricreativa degli ospiti nonché per consentire (…) un agevole intervento delle Forze di Polizia…». L’ombra minacciosa si accentua, allorché si suggerisce la costruzione di alloggi «per ospitare eventuali nuclei familiari con minori ». 8 morti in 16 mesi, a legge da poco varata (era stata approvata nel febbraio del 1998) avrebbero dovuto suggerire che l’eufemismo era davvero fuori luogo. E invece no. Confortati dal gusto governativo per le figure retoriche, da allora in poi i mass media – e perfino giornali, politici e chierici di sinistra – si diedero a definire i Cpt «centri di accoglienza». Un martellamento che fece il suo bell’effetto sull’opinione pubblica, la quale si persuase che gli «extracomunitari» più sono trattati bene e più si ribellano contro loro benefattori.

Il 15 gennaio del 2000, dopo quel tragico dicembre di «ospiti» morti prematuramente, un corteo antirazzista cercò di accompagnare una delegazione nel Cpt di Ponte Galeria. Fu disperso dalle forze dell’ordine ma alcuni manifestanti non rinunciarono a spiegare agli abitanti del borgo le ragioni della loro protesta. Scoprirono che essi erano persuasi che quello che sorgeva lì, a pochi passi dalle loro case, fosse un centro di accoglienza e che i manifestanti fossero in sostanza dei razzisti che contestavano il trattamento generoso riservato agli «extracomunitari». La forza persuasiva dei mass media aveva loro impedito di scorgere le enormi gabbie che lo circondano. Viene in mente Dachau, ridente e tranquilla cittadina vicino Monaco, i cui abitanti per lungo tempo convissero con un lager senza mai vederlo.

La fermezza di centrosinistra

Restiamo nel 2000, tempo di elezioni regionali. In Emilia-Romagna i partiti del centrosinistra firmano un accordo programmatico in cui, fra l’altro, dopo aver proclamato l’intento di contrastare virilmente «con mezzi idonei e con grande fermezza ogni forma di immigrazione clandestina finalizzata alla criminalità e strumento di illegalità», chiedono al governo che la Regione possa svolgere «un ruolo chiave… nella programmazione dei Centri di permanenza temporanea per gli immigrati espulsi». Anche chi avrebbe dovuto essere più cauto difese quell’accordo come il migliore possibile; chi protestò fu trattato come si tratta chi disturba il manovratore.

I disturbatori dal canto loro continuarono caparbiamente a condurre campagne e lotte anche dure per la chiusura definitiva dei Cpt, che chiamarono lager : un termine forse troppo forte, ma solo per chi non conosce il tedesco e la storia. Oggi, finalmente, un varco importante s’è aperto nel muro del silenzio e delle complicità. Non è casuale che ciò sia accaduto in Puglia, terra di frontiera, di sbarchi, di lager dalla conclamata crudeltà, di tragedie come quella della Kater I Rades: 108 albanesi annegati il 28 marzo 1997, in seguito allo speronamento da parte di una nave della Marina militare durante un pattugliamento in acque internazionali, deciso dal governo di centrosinistra dell’epoca. Ci voleva uno come Nichi Vendola, raffinato ricamatore di parole, per denunciare con tanta forza e clamore l’imbroglio semantico dei Cpt e il loro insostenibile scandalo. Se è vero, come pensavano Bourdieu e Sayad, che i cambiamenti semantici sono cambiamenti nella struttura dei rapporti di forza nella società, allora forse è un buon segno che a dire «lager» invece che «centri di accoglienza» siano ora anche dei compassati presidenti di regione.

 

Fonte: https://archiviopubblico.ilmanifesto.it/Articolo/2003073143